Per 500mila italiani la salute è un lusso. Iniquità in crescita e minori a rischio
Migliaia di famiglie numerose e poveri si curano meno e peggio. Agnoletto: è una strategia precisissima per spingerci verso il privato
Povertà e salute, la forbice si allarga. All’aumentare della prima la spesa per la seconda diminuisce, con le famiglie numerose che rinunciano alle cure in certi casi e i poveri che attuano minore prevenzione, ammalandosi di più e necessitando così di più farmaci per affrontare le fasi acute delle patologie. Inoltre sale la spesa non coperta dal Servizio Sanitario Nazionale (SSN) e cresce la discrepanza tra le risorse dedicate alla salute tra famiglie povere e non. Un trend confermato dal dato assoluto di ben 473mila persone che non hanno potuto acquistare i farmaci di cui avevano bisogno per ragioni economiche nel 2019.
Sono alcune prime considerazioni e qualche dato emersi dal 7° Rapporto – Donare per curare: Povertà Sanitaria e Donazione Farmaci, promosso dalla Fondazione Banco Farmaceutico onlus e BFResearch, realizzato dall’Osservatorio sulla Povertà Sanitaria (OPSan, organo di ricerca di Banco Farmaceutico). La fotografia piomba come un macigno su un Paese che, guardandosi allo specchio, si trova ad avere circa 14 milioni di abitanti in stato di povertà assoluta o relativa e un 35% circa di cittadini con più di 65 anni di età (nel 2017), ovvero cinque punti percentuali sopra alla media europea.
Salute disuguale: i poveri si curano con 128 euro
In linea con quanto rilevato, i ricercatori sottolineano perciò «il contrasto tra la progressiva crescita della spesa sanitaria annuale di chi appartiene a famiglie non povere – che passa da 716 euro nel 2014 a 816 euro nel 2017 – e l’andamento discontinuo della medesima spesa per chi vive in famiglie povere, che dopo l’avvio di 120 euro nel 2014 è scesa per due anni consecutivi per risalire a quota a 128 euro nel 2017». Una distanza, tra 816 e 128 euro, troppo elevata, che si traduce in un’ampia fetta di italiani che, di fatto, non si cura come dovrebbe, al netto del “consumismo sanitario” possibile solo tra chi non ha problemi economici.
Ma non solo. Perché andando a scavare nel dato generale declinato sulle singole voci di spesa sanitaria e calato nella vita concreta delle persone, si vedono meglio le disuguaglianze. I poveri possono spendere in attrezzature terapeutiche una media mensile di 1,30 euro contro i 12,32 della media nazionale, mentre per il dentista si fermano addirittura a 2,19 euro contro 31,16 euro.
Tali difformità rendono ragione al numero enorme – 12,6 milioni – di individui che, almeno una volta nel corso dell’anno, hanno limitato – per ragioni economiche – la spesa per visite mediche e accertamenti periodici di controllo preventivo (dentista, mammografia, pap-test ecc…). E non si tratta solo di indigenti, ma anche di famiglie numerose, con minori.
Agnoletto: una strategia precisissima ci spinge verso la sanità privata
In tutto questo il Servizio Sanitario Nazionale, eccellenza italiana mai abbastanza esaltata, frutto di una visione politica democratica illuminata, che fa? Retrocede. La quota totalmente a carico dei cittadini è passata, tra il 2016 e il 2018, dal 37,3% al 40,3%. Contestualmente, quella coperta dal SSN è passata dal 62,7% al 59,7%. Tre punti percentuali in tre anni. Ma forse non è uno spostamento dettato solo dalla mancanza cronica di risorse pubbliche.
Di questo è certo Vittorio Agnoletto, docente di Globalizzazione e politiche della salute all’Università degli Studi di Milano:
«Siamo di fronte a una strategia precisissima per diminuire sempre di più e contenere la spesa sanitaria pubblica, e lasciare lo spazio amplissimo alla spesa sanitaria privata, all’out-of-pocket delle singole famiglie che possono permetterselo».
Il ticket spinge verso il circuito privato
Una convinzione sostanziata da studi condotti sui meccanismi, ufficiali e nascosti, che spingono a rivolgersi alla sanità privata, specialmente in Lombardia. «Non parliamo di leggi ma di dinamiche. Se io SSN metto un ticket alto su tutti gli esami diagnostici semplici, quelli del sangue, delle urine, se metto un ticket sulla mammografia a 40 euro, e il privato lo mette pari o inferiore ma con liste d’attesa ridotte, è evidente che spingo le persone ad andare verso il privato.
Il privato su questo tipo di esami, così semplici, non ha nulla da perdere. Ma se su 10 persone che vanno a fare una mammografia una trova un piccolo nodulo, una volta che questa è andata a fare la mammografia nel privato, se ha un minimo di disponibilità economica, di fronte a un sospetto di patologia, tenderà a rimanere nel privato per svolgere gli accertamenti successivi. Altrimenti gli tocca ricominciare l’iter da capo, tornando dal medico di famiglia».
I vizi dell’intramoenia
Ma non ci sono solo i ticket. Una forma perversa di privatizzazione risiede anche dietro alle visite intramoenia, che sono esplose. Sono le visite che i medici pubblici possono eseguire in regime privato all’interno della struttura pubblica. «Il meccanismo è infernale. Perché più si fanno le visite intramoenia più guadagna anche la struttura: tu paghi il medico ma una parte, anche maggiore del 50%, va all’ospedale da cui dipende il medico».
Paradossalmente si arriva al fatto che quanto più si fa intramoenia tanto più guadagna la struttura pubblica tanto meno fornisce servizi col servizio sanitario nazionale.
ll call center “dedicato” in Lombardia
«La regione Lombardia – denuncia Agnoletto – ha messo in piedi un call-center con funzionari propri per l’intramoenia nella struttura pubblica. Il cittadino telefona e, anche senza ricetta, prenota una visita da uno specialista dipendente del servizio sanitario pubblico in regime privato». Tramite un call center pubblico.
«Questo è un motivo per cui non si interviene sulla riduzione delle liste d’attesa, nonostante le linee guida emanate dall’ex ministro Giulia Grillo dicano chiaramente che, se abbiamo delle liste d’attesa che superano I tempi previsti, bisogna interrompere l’intramoenia finché non si è rientrati nei limiti. Senza dimenticare la grande quantità di strutture sanitarie – soprattutto in Lombardia Lazio e Sicilia – che svolgono contemporaneamente l’attività privata e quella pubblica convenzionata. Con lo stesso centralino che, nel momento in cui non c’è posto nel pubblico, ti passa al reparto privato».