Shein punta a quotarsi in Borsa. Insorgono le organizzazioni per i diritti umani

Un'azienda come Shein, emblema dell'ultra fast fashion con tutte le sue distorsioni, può quotarsi alla Borsa di Londra? Le ong dicono di no

Il negozio di Shein a Tokyo. L'azienda cinese di ultra fast fashion si vuole quotare in Borsa © Dick Thomas Johnson/Flickr

L’azienda cinese di ultra fast fashion Shein ha depositato a giugno i primi documenti per quotarsi alla Borsa di Londra. Potrebbe essere valutata oltre 50 miliardi di dollari e per la Borsa inglese sarebbe come vincere alla lotteria. Ma diverse organizzazioni per la difesa dei diritti umani si oppongono a gran voce. Da Stop Uyghur Genocide ad Amnesty International, sono in molti a denunciarne gli scheletri nell’armadio.

L’ascesa di Shein, dagli abiti da sposa alla prossima quotazione in Borsa

Nato nel 2008 per vendere abiti da sposa con il nome di ZZKKO, nutrito dell’expertise in materia di motori di ricerche, Shein è oggi uno dei maggiori siti di vendita di abbigliamento femminile. Ha cominciato come rivenditore, poi ha creato un proprio marchio, adesso ha un’intera filiera. Col tempo si è espanso, ha cambiato nome diverse volte fino a raggiungere il semplice e orecchiabile Shein, ha conquistato gli influencer, organizzato temporary shop per ingraziarsi anche gli araldi dell’acquisto in negozio. Nel 2020, l’anno della pandemia, ha fatturato 10 miliardi di dollari. Dal 2021 ne vale 30 e la sua app ha battuto Amazon in termini di download. L’obiettivo per il 2024 è quello di quotarsi in Borsa.

Il modello è quello dell’ultra fast fashion: non si producono più quattro collezioni all’anno, ma nemmeno 25 o 50 come nel fast fashion. Piuttosto, gli algoritmi monitorano le preferenze degli utenti e “dirigono” la produzione in tempo reale, nutrendo un catalogo infinito e on demand. Un approccio che negli anni ha collezionato accuse di plagio sia da singoli stilisti sia da marchi come Levi’s e Ralph Lauren.

Quella di Shein è una moda usa e getta in cui un capo dura mediamente tre mesi, con tutto quello che implica a livello di impatto ambientale, fra spreco e accumulo di rifiuti. Per potersi permettere di produrre con ritmi così rapidi e costi stracciati, diventa necessario sacrificare la qualità. Non a caso, l’Università di Toronto ha riscontrato in giacche da bambino la presenza di una quantità di piombo venti volte eccedente il massimo consentito. Un rapporto di Greenpeace ha rilevato in un campione di vestiti composti organici volatili, alchilfenoli etossilati, formaldeide, ftalati, PFAS e metalli pesanti. Niente di buono per la salute del Pianeta, né di chi quei capi li indossa o li confeziona.

Le preoccupanti condizioni di lavoro nelle fabbriche dell’ultra fast fashion

Del resto, basta aprire il sito e scorrere il listino prezzi per farsi venire qualche dubbio. Si trovano abiti da sera a partire da 18 euro, magliette e top a 4,60, scarpe “fatte a mano” a 15, stivali a 20. Spedizione gratuita oltre i 9 euro. Possibile che la somma di materia prima (per quanto scadente) lavoro e trasporto da una parte all’altra del globo costi così poco? Quello che non paga il consumatore, ricordava Walter Siti nel suo Pagare o non pagare, lo pagherà qualcun altro. Di solito i lavoratori: se il prezzo di un prodotto è troppo basso, da qualche parte c’è qualcuno che viene pagato troppo poco o che non viene pagato proprio.

L’organizzazione non governativa con sede in Svizzera Public Eye già nel 2021 aveva pubblicato un’inchiesta sulle condizioni di lavoro nelle fabbriche di Guangzhou, nel sud della Cina, con orari che si aggiravano su una media di 75 ore settimanali. Senza pause, né a pranzo né a cena. Un lavoratore raccontava di dover stare in fabbrica dalle 8 del mattino alle 22:30, con un giorno libero al mese. Recentemente un portavoce di Shein ha dichiarato alla CNN che l’azienda intende concedere almeno un giorno libero alla settimana e limitare l’orario a 60 ore la settimana. Ambizioni piuttosto contenute, a dire il vero.

Le associazioni per i diritti umani si oppongono alla quotazione in Borsa di Shein

Ora diverse organizzazioni impegnate nella difesa dei diritti umani si sono opposte all’obiettivo di Shein di quotarsi in Borsa. La prima a muoversi è stata Stop Uyhur Genocide che ha denunciato lo sfruttamento di manodopera della minoranza uigura per la fornitura di cotone nella regione dello Xinjiang.

Il gruppo ha dunque chiesto all’autorità britannica di bloccare l’accordo sottolineando il «dovere statutario di integrità e protezione degli investitori» della Financial Conduct Authority (FCA). Il Modern Slavery Act, ratificato nel 2015 e in via di aggiornamento proprio in questi giorni, impone infatti alle aziende di illustrare ogni anno le misure adottate per evitare che si verifichino forme moderne di lavoro forzato e traffico di esseri umani nelle loro attività. E Shein è lontana dal rispettarne le direttive.

A Stop Uyhur Genocide fa eco anche Amnesty International che ha definito l’eventuale operazione «una vergogna» per Londra. Si rischierebbe infatti di mettere in dubbio la credibilità della FCA di fronte agli investitori, sui quali incomberebbe peraltro un rischio finanziario altissimo.

Già il primo tentativo di Shein, che puntava invece a Wall Street, aveva sollevato un’opposizione accesa. La domanda presentata nel novembre 2023, infatti, non ha ancora ricevuto alcuna risposta. Per Londra, però, la situazione è un po’ diversa. Perché l’importanza di questa piazza finanziaria sta scemando visibilmente. Sugli 11,9 miliardi di dollari raccolti tramite offerte pubbliche iniziali (IPO) in Europa tra gennaio e maggio 2024, solo il 2% era nel Regno Unito. Il livello più basso degli ultimi decenni. Shein rappresenta ora un’occasione d’oro, perché sarebbe la più grande quotazione mai realizzata in territorio britannico. Con il 20%-25% del suo capitale quotato, supererebbe le IPO della compagnia petrolifera russa Rosne nel 2005 e del gigante minerario Glencore nel 2011. Rinunciarvi non sarà certo facile.