Clima, 27 azionisti si preparano alla battaglia all’assemblea di Shell
Ha già raccolto parecchie adesioni la risoluzione degli azionisti che chiederà a Shell di rispettare l’Accordo di Parigi sul clima
Mancano ancora diversi mesi all’assemblea generale degli azionisti del colosso petrolifero Shell, in programma a maggio. Ma si respira già un clima di attesa. Ventisette investitori, che insieme detengono circa il 5% delle azioni dell’azienda, hanno infatti unito le forze con l’associazione Follow This. L’obiettivo? Convincere Shell a tagliare le emissioni di gas a effetto serra in misura compatibile con l’Accordo di Parigi sul clima.
Chi sostiene la risoluzione degli azionisti di Shell
Era il 2016 quando Follow This riusciva per la prima volta a presentare una risoluzione sul clima all’assemblea degli azionisti di Shell. All’epoca, il 3% degli investitori si era astenuto e un altro 3% aveva votato a favore. Una percentuale, quest’ultima, raddoppiata l’anno successivo. L’anno scorso è arrivata al 20%, durante un’assemblea in cui la vigilanza è dovuta intervenire per fermare alcuni manifestanti.
Quest’anno Follow This avrà dalla propria parte ventisette investitori che, messi insieme, detengono asset superiori ai 4mila miliardi di dollari. C’è il più grande asset manager europeo, Amundi. C’è il National Employment Savings Trust (Nest), che gestisce le pensioni di circa un lavoratore britannico su quattro. Ma ci sono anche la compagnia di assicurazioni e pensioni Scottish Widows, Candriam, Rathbones Group, Edmond de Rothschild Asset Management. Sommando e le azioni di Shell presenti nei loro portafogli, si arriva al 5% del totale. Una lista che potrebbe allungarsi ancora; o, almeno, questo è quanto auspica Follow This.
Perché il piano di riduzione delle emissioni di Shell non convince
Shell, come pressoché qualsiasi multinazionale, ha già un piano di riduzione delle emissioni che si pone il traguardo del net zero entro il 2050. La tabella di marcia prevede come prima cosa di dimezzare le emissioni nette entro il 2030, rispetto ai livelli del 2016. Questo obiettivo però si riferisce soltanto alle emissioni Scope 1, cioè quelle generate direttamente dalle operazioni dell’azienda, e Scope 2, derivanti dall’energia che l’azienda acquista. Il colosso anglo-olandese promette anche di eliminareentro il 2025 il gas flaring (cioè la combustione del gas estratto in eccesso) e di ridurre quasi a zero le emissioni di metano entro la fine del decennio. In compenso, però, fino al 2030 vuole mantenere stabile la produzione petrolifera.
False soluzioni
Cattura di CO2, il sistema “miracoloso” e ultra-energivoro di Shell
Secondo un report di Shell, gli impianti per la cattura di CO2 richiederanno, da qui al 2100, 18.300 terawattora di energia all’anno
La risoluzione chiede invece di rendere più ambiziosi gli obiettivi di riduzione nel medio termine delle emissioni Scope 3, vale a dire quelle che dell’intera filiera produttiva, dall’approvvigionamento delle materie prime fino all’uso dei prodotti. E che sono la quota preponderante, considerato che i prodotti in questione sono combustibili fossili.
«Noi riteniamo che i nostri obiettivi climatici siano allineati con il target più ambizioso dell’Accordo di Parigi», ribatte un portavoce di Shell, ricordando come la risoluzione sia pressoché identica a quella del 2023, respinta dalla maggioranza. «Il consiglio di amministrazione di Shell aveva già avvertito gli azionisti del fatto che la risoluzione di Follow This fosse irrealistica e semplicistica, che non avrebbe avuto nessun impatto sulla mitigazione dei cambiamenti climatici, avrebbe avuto conseguenze negative per i nostri clienti e sarebbe stata contro gli interessi dell’azienda e dei suoi azionisti», afferma.
Shell si libera delle operazioni onshore in Nigeria
Nel frattempo, Shell decide di «semplificare il proprio portafoglio» cedendo le proprie attività di estrazione di gas e petrolio a terra (onshore) in Nigeria. Un business che nasce più di sessant’anni fa e che per lungo tempo ha avuto un ruolo di tutto rispetto nelle strategie della multinazionale, considerato che il Paese è il primo del Continente in termini di produzione petrolifera. Negli ultimi anni tuttavia è stato fonte di interminabili problemi, tra accuse di corruzione (da cui poi è stata assolta, insieme a Eni) e fuoriuscite di petrolio, con tutti i danni che ne derivano per la popolazione e il territorio.
Non stupisce, dunque, il duro commento di Daniel Leader, avvocato dello studio legale londinese che rappresenta i cittadini nigeriani. «Stanno vendendo le loro infrastrutture decrepite alle imprese locali e lasciando le comunità locali in uno stato di disastro ambientale», dichiara. Il colosso petrolifero anglo-olandese tiene comunque per sé le estrazioni in mare (offshore) e il ramo del gas naturale liquefatto, sempre in Nigeria.
La transazione, sottolinea il New York Times, è piuttosto complessa. Shell venderà a un consorzio di imprese (quattro locali, una internazionale) la propria sussidiaria in Nigeria, la quale possiede il 30% di una joint venture che gestisce pozzi, oleodotti e altre strutture nel Delta del Niger. Della joint venture fanno parte anche la compagnia petrolifera di Stato nigeriana (che ne detiene la maggioranza) e la francese TotalEnergies. A fronte di un valore contabile della filiale pari a 2,8 miliardi di dollari, Shell riceverà 1,3 miliardi. Con la possibilità di aggiungere ulteriori pagamenti per 1,1 miliardi. La società sta mettendo a disposizione degli acquirenti prestiti e altri fondi fino a 2,5 miliardi, per permettere loro di sostenere la transazione e portare avanti le operazioni della joint venture.