Quando la lotta paga. Il caso Starbucks, tra sindacato e solidarietà alla Palestina

La battaglia del sindacato dei lavoratori della catena di caffè ha ottenuto nuovo slancio grazie alla solidarietà per la causa palestinese

© June Andrei George/Unsplash

La lotta paga, soprattutto quando è collettiva e solidale. Ovvero non si limita a rivendicazioni particolari ma coinvolge ogni aspetto del vivere in comunità, riuscendo a tenere unite le battaglie dal basso contro le molteplici ingiustizie e i diversi soprusi. L’ultimo esempio arriva dalla lotta sindacale all’interno di Starbucks. Multinazionale nota per le sue catene di caffè di poco gusto e alto costo, e ancora più nota per i suoi violenti comportamenti antisindacali.

Fino a quando la strategia della Starbucks Workers United si limitava a rivendicare i diritti dei lavoratori all’interno dei negozi, i risultati erano ottimi ma circoscritti. Quando si è allargata, è diventata globale. Anche grazie alla lotta per fermare il genocidio in Palestina. È successo infatti che il sindacato dei lavoratori di Starbucks a inizio novembre abbia postato un tweet contro la brutale invasione israeliana nella Striscia di Gaza.

Si era ancora all’inizio del conflitto. Prima ancora delle decine di migliaia di morti, di cui la maggior parte donne e bambini, della distruzione degli ospedali, del distacco dell’acqua e dell’energia elettrica, del blocco degli aiuti umanitari. Il tweet è stato poi rimosso, ma Starbucks ne ha subito approfittato per attaccare il sindacato. Il risultato è stato un contraccolpo di dimensioni globali. E la lotta contro i soprusi sui lavoratori di Starbucks è diventata globale.

La lunga storia antisindacale di Starbucks

Da sempre Starbucks è stata la punta di diamante della lotta di classe dall’alto dei padroni contro i lavoratori tipica del capitalismo delle piattaforme. Come e più dei vari Amazon, Microsoft, Google, Apple e via dicendo, la catena di negozi di caffè ha condotto una battaglia a tutto campo contro la sindacalizzazione dei suoi dipendenti. A forza di premi e concessioni ai negozi non sindacalizzati e di mobbing, persecuzioni e licenziamenti nei confronti di quelli sindacalizzati.

Tanto che il suo storico amministratore delegato Howard Schultz, convocato dal Health, education, labor and pension committee del Congresso statunitense, fu accusato da Bernie Sanders di fare una «spietata campagna antisindacale». Mentre un tribunale di Buffalo, dove nacque il primo nucleo della Starbucks Workers United, ha dichiarato che la catena aveva perseguito uno «spudorato e sistematico comportamento nei confronti di lavoratori di Buffalo che hanno tentato di ricorrere al sindacato». E aveva ordinanto il reintegro immediato degli impiegati illegalmente licenziati.

Da allora sono state centinaia le sentenze dei tribunali locali contro il comportamento antisindacale di Starbucks. La lotta dei loro lavoratori era quindi diventata di esempio per moltissime vittime della repressione della new economy del tardo capitalismo, ma non era mai uscita da quel recinto. Fino alla Palestina.

Il dibattito sulla Palestina e il contraccolpo letale

Fino a quando lo scorso 10 ottobre l’account X della Starbucks Workers United ha postato un messaggio con scritto: «Solidarietà con la Palestina». Sopra l’immagine di un bulldozer palestinese che abbatte parte di uno dei tanti muri di cemento e filo spinato che Israele utilizza per mantenere il suo regime di apartheid nella Striscia di Gaza.

Il post è stato subito cancellato ma molti commentatori e politici di destra ne hanno approfittato per condannare Starbucks. L’azienda allora ne ha approfittato a sua volta per citare in giudizio il sindacato per comportamenti filo terroristi. E anche per essersi appropriati del loro nome e marchio. Cosa che tutti i sindacati fanno da un paio di secoli, essendo riferiti al luogo di lavoro.

Mai mossa fu più sbagliata. I militanti della Starbucks Workers United hanno cominciato a tessere reti globali e a partecipare alle manifestazioni a favore della Palestina. La loro presenza e le loro battaglie si sono moltiplicate. A novembre decine di migliaia di lavoratori della multinazionale del frappuccino hanno manifestato in varie città americane.

E all’inizio di dicembre i mercati finanziari hanno stimato nel calo delle vendite derivate da queste proteste una perdita di oltre una decina di miliardi di dollari di capitalizzazione di mercato. A febbraio, per la prima volta dopo tre anni dalla nascita del sindacato, Starbucks si è dovuta sedere a discutere con loro. Ammettendone quindi l’esistenza e riconoscendone implicitamente le rivendicazioni.

Il boicottaggio globale contro Starbucks

Da allora le vittorie del sindacato sono state tantissime. Ad almeno diecimila dipendenti è stato concesso il contratto nazionale di lavoro, con tutte le tutele del caso. E i negozi dove è presente il sindacato sono diventati in breve oltre quattrocento. Un granello di sabbia nel mare degli oltre diecimila negozi della multinazionale, ma un primo e importantissimo passo. Anche perché, essendo stata la lotta collettiva, solidale e internazionale, il contraccolpo letale per i padroni non si è limitato al riconoscimento dei diritti dei lavoratori locali. Ma si è trasformato in un boicottaggio globale.

In Europa Starbucks è stato associato alla repressione sindacale e al sostegno alle politiche dei massacri perpetrati da Israele. E le frequentazioni e le vendite sono in calo ovunque. Nonostante i continui aiuti anche economici delle amministrazioni pubbliche alla multinazionale, tipico del pensiero neoliberale. Basti vedere come a inizio mese il marchio abbia potuto aprire un negozio in pieno centro a Bologna, dove abitare è diventato impossibile. E abbia potuto farlo solo grazie a una speciale «deroga al regolamento Unesco» gentilmente concessa dall’amministrazione comunale.

Nelle regioni del Mena (Africa del Nord e Medio Oriente) il boicottaggio invece è diventato ancor più serrato. Se una volta poter frequentare i negozi della catena era sintomo di ricchezza e prestigio sociale, ora è diventato disdicevole. E così Al Shaya, il franchising della multinazionale nella zona, ha annunciato questo mese che sarà costretta chiudere diversi negozi della catena. Perché «l’azienda è stata pesantemente penalizzata economicamente dalle campagne internazionale di boicottaggio». Non c’è che dire. Quando è collettiva e solidale, la lotta paga.