Violenze e abusi nelle piantagioni di tè da cui si riforniscono i grandi marchi

Svelati abusi e violenze sessuali nelle piantagioni di tè in Kenya di proprietà di Unilever e James Finaly & Co

Donna che raccoglie foglie di tè © Jennifer Watson

«È semplicemente una tortura. Vuole venire a letto con te, poi ottieni il lavoro». A parlare è una donna che lavora in una piantagione di tè in Kenya. Si sta riferendo al suo supervisore che l’ha lasciata a casa senza stipendio finché non ha ceduto al ricatto. È stata un’inchiesta della BBC, pubblicata il 20 febbraio scorso, ad aver portato a galla stupri, abusi e violenze sessuali commessi da manager e supervisori locali su più di 70 donne. Le piantagioni di tè protagoniste dell’indagine sono di proprietà di due famosi marchi del Regno Unito: Unilever e James Finaly & Co. La prima produceva fino a poco tempo fa i prodotti a marchio Lipton e PGtips, mentre la seconda rifornisce le catene di supermercati Tesco e Sainsbury’s, nonché Starbucks UK.

L’inchiesta sulle piantagioni di tè in Kenya

Il giornalista della BBC, Tom Odula, ha parlato con molte donne che lavorano nelle piantagioni delle due compagnie. La maggior parte ha dichiarato di aver subito pressioni sessuali e di aver dovuto cedere, vista la scarsità di lavoro. Al fine di ottenere più prove, la BBC ha inviato una giornalista sotto copertura nelle piantagioni. Il primo colloquio si è tenuto in una stanza di albergo. Qui, dopo averla spinta contro a una finestra, il reclutatore le ha chiesto di spogliarsi: «Ci sdraiamo, finiamo e andiamo. Poi vieni a lavorare».

Donne che portano le loro foglie di te
Lavoratrici che consegnano il tè raccolto © philou1000/iStockPhoto

Una situazione analoga si è verificata anche nella piantagione di Unilever. La giornalista è stata invitata a una giornata di orientamento. Qui il manager di divisione ha tenuto un discorso ai nuovi arrivati circa la politica di zero-tolerance nei confronti degli abusi sessuali di Unilever, salvo poi invitare la reporter al bar e proporle rapporti sessuali. In seguito, una volta assegnata alla squadra di diserbo, una mansione estenuante da cui molte donne chiedono di essere trasferite, la giornalista ha fatto richiesta di spostamento. Anche questa volta sarebbe stata ricattata per ottenere in cambio mansioni più leggere.

Le reazioni del governo kenyota e delle multinazionali coinvolte

Lo scoop della BBC ha suscitato shock e indignazione, scuotendo anche il parlamento kenyota. La vicepresidente dell’assemblea nazionale, Gladys Shollei, ha ordinato l’apertura di un’inchiesta da parte di una commissione parlamentare da completarsi entro due settimane.

James Finaly & Co ha dichiarato di aver sospeso il manager e di averlo denunciato alla polizia, nonché di aver avviato un’indagine per stabilire se le proprie attività in Kenya scontino «un problema endemico con la violenza sessuale».

Unilever, allo stesso modo, si è dichiarata «scioccata e rattristata». Già nel 2011 erano state segnalate violenze sessuali perpetuate contro le lavoratrici delle sue piantagioni di tè in Kenya. Sull’onda dello scandalo, la multinazionale aveva adottato una politica di tolleranza zero nei confronti di violenze e molestie sessuali e aveva implementato sistema di segnalazione e altre misure anti-abusi. Tuttavia la recente indagine della BBC ha rivelato che le accuse non venivano prese in considerazione.

Durante l’inchiesta, nel 2021, Unilever ha venduto la sua attività in Kenya al fondo CVC Capital Partners. In seguito alle accuse emerse, il nuovo proprietario ha dichiarato di aver sospeso i due manager e di aver ordinato un’indagine indipendente. Nonostante la vendita, è lecito supporre che la reputazione di Unilever gli occhi dei consumatori ne risenta. Le nuove generazioni, infatti, sono sensibili ai grandi temi dei nostri tempi, tra cui la tutela dei lavoratori. Esigono che i brand sposino dei valori e non sono disposte a fare sconti: alle dichiarazioni d’intenti devono seguire i fatti.

Un modello diverso: il commercio equo e solidale

L’indagine ha portato a galla una prassi di violenza contro le donne che non riguarda soltanto le piantagioni di tè, ma l’intero sistema agricolo. Ogni giorno milioni di lavoratrici rischiano di subire molestie e abusi. Nei Paesi del Sud del mondo, tuttavia, esiste anche un altro modo di fare agricoltura: lo dimostrano le tante storie di commercio equo e solidale.

Una è quella di Meru Herbs, un’organizzazione – da anni vicina a Altromercato – che nasce nel 1991 alle falde del Monte Kenya con l’intento di alleviare i vincoli finanziari che venivano imposti agli agricoltori locali e di contribuire alla creazione e manutenzione di un progetto idrico efficiente. Tra gli obiettivi dell’attività c’è anche quello di garantire stipendi dignitosi a dipendenti e agricoltori e promuovere l’empowerment femminile. «La struttura delle aziende agricole Meru Herbs è diversa», afferma la manager Sally Sawaya. «La maggior parte dei lavoratori è costituita da donne che non solo dirigono le fabbriche ma anche le unità di controllo della qualità, le strutture di essiccazione e stoccaggio e l’intero processo logistico».

La promozione delle donne a ruoli di leadership e management, al fine di renderle meno vulnerabili, è un obiettivo anche di Fairtrade, altra organizzazione del commercio equo e solidale. Tra le soluzioni proposte c’è quella di coinvolgere le lavoratrici negli organi decisionali per capire, insieme a loro, quali sono i sistemi più efficaci per affrontare la violenza di genere. Sempre Fairtrade, nel condannare quanto accaduto in Kenya, ha espresso la necessità che tutti i governi firmino la Violence and Harassment Convention 190, volta a eliminare violenza e abusi nel mondo del lavoro. Le aziende da sole non possono fermare la violenza di genere, serve uno sforzo collettivo.