L’ambiguità degli Stati Uniti nei negoziati della Cop28
Gli Stati Uniti di Biden si dichiarano capofila del clima. Ma la loro strategia negoziale alla Cop28 rivela più di un'ambiguità
«Facciamo nuovamente dell’America la capofila del clima». Con questo slogan Joe Biden aveva affrontato la campagna elettorale del 2020. Un modo per galvanizzare l’elettorato giovane, negli Stati Uniti molto sensibile alla questione climatica, ma anche un preciso impegno in politica estera. Dopo l’abbandono dell’Accordo di Parigi deciso dal predecessore Donald Trump, Biden si è impegnato a ridare forza al multilateralismo a guida Onu. Partendo proprio dall’agenda climatica.
A quasi quattro anni da quella promessa, con le presidenziali del 2024 che si avvicinano, la missione non appare compiuta. Washington è effettivamente tornata ai tavoli negoziali delle Cop, e due dei pacchetti legislativi più voluti dal Presidente Biden – L’Inflaction Reduction Act e l’Infrastracure Act – rappresentano il maggior investimento sulle politiche verdi della storia statunitense. Ma allo stesso tempo Washington ha continuato a puntare massicciamente sul fossile: non solo l’esistente, ma anche nuove esplorazioni in patria e all’estero. E alla Cop28 di Dubai gli Stati Uniti stanno facendo parlare di sé più per la propria ambiguità che per l’ambizione.
Phase out: un impegno a metà
A Dubai, dove è in corso la ventottesima Conferenza delle Parti – il tavolo negoziale sul clima guidato dalle Nazioni Unite – si discute e si litiga attorno ad una locuzione: phase out. Si traduce con “abbandono”, e si riferisce ai combustibili fossili. Per la prima volta il testo finale di una Cop potrebbe citare esplicitamente la fonte d’energia responsabile della gran parte del riscaldamento globale, e chiederne ufficialmente la dismissione. A favore di questa proposta si sono schierati l’Unione europea, l’Alleanza dei piccoli Stati insulari (Aosis) e una manciata di nazioni sparse per il mondo (Canada, Colombia, Cile, Kenya, Etiopia). Sul fronte dei contrari svettano le petromonarchie – in primis l’Arabia Saudita, ma anche gli Emirati padroni di casa -, l’India, la Russia, l’Iran e la Cina. Benché nelle ultime ore sembrino arrivare segnali di apertura da Pechino.
In questo scenario estremamente complesso, gli Stati Uniti stanno giocando una partita poco mediatica e di difficile interpretazione. Ufficialmente, lo ha ribadito pochi giorni fa l’inviato speciale per il clima John Kerry, la Casa Bianca è a favore del phase out. Ma la diplomazia climatica a stelle e strisce non sembra muoversi con convinzione affinché si arrivi a questo risultato. Tanto che l’analista britannico Ed King – tra i più rispettati nel mondo dei negoziati – inseriva solo pochi giorni fa anche Washington nel novero delle potenze contrarie.
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L’ultima bozza di Global Stocktacke, il più importante documento che verrà licenziato alla Cop28, include diverse opzioni di testo che citano esplicitamente l’abbandono dei combustibili fossili. È realistico ritenere che gli Usa abbiano deciso di appoggiarne l’inserimento. Ma altrettanto probabile è che sia anche la mano statunitense ad aver aggiunto, tra le diverse opzioni di accordo, alcuni di quei termini che diluerebbero il significato di quest’impegno.
Ad esempio, in una delle formulazioni proposte si legge di phase out dei soli combustibili fossili unabated. Cioè non accompagnati da sistemi di cattura e stoccaggio della CO2. Si tratta di tecnologie acerbe e costose, sulle quali non esiste una definizione univoca e un’accordo sulle possibilità d’uso. Di fatto la foglia di fico della lobby fossile – ben rappresentata alla Cop28. Ma il riferimento al suo uso è uno dei desiderata della delegazione statunitense. Come dimostra lo spazio che alla cattura e stoccaggio ha dedicato lo stesso Kerry nella sua ultima conferenza stampa.
«Gli Stati Uniti vogliono apparire come sostenitori di un’eliminazione graduale dei combustibili fossili, ma stanno manipolando il linguaggio in modo da poter continuare a bruciare combustibili fossili, a devastare il resto del pianeta e ad affidarsi a distrazioni pericolose come la cattura del carbonio, invece di dover apportare cambiamenti significativi», ha dichiarato JL Andrepont, portavoce dell’ong 350.org.
Appoggiare il phase out per poi diluirlo è una delle strategie negoziali che potrebbe convincere le nazioni più scettiche a raggiungere un accordo. Ma anche l’ennesimo rallentamento all’azione contro il riscaldamento globale.
Washington in trincea sulla finanza
Se l’energia è il tema meglio raccontato di questa Cop, è sulla finanza che si sta consumando la contrapposizione più dura. Il G77 – raggruppamento che, a dispetto del nome, unisce più di 130 nazioni del Sud globale – ha due obiettivi. Primo, riconoscere ufficialmente le maggiori responsabilità del mondo industrializzato nella crisi climatica. Secondo, vincolare la transizione nei Paesi in via di sviluppo al ricevere adeguato supporto finanziario. Flussi di denaro – non appare nel testo negoziato, ma emerge chiaramente dagli speech delle nazioni africane e latinoamericane – che deve viaggiare sui binari dell’aiuto a fondo perduto, non del credito.
L’occidente allargato è quantomeno scettico, e gli Stati Uniti sono sulle barricate. Un episodio rende l’idea meglio di qualunque altro. Durante la prima giornata della Cop sono stati stanziati i primi fondi per il loss and damage. Ovvero un meccanismo di risarcimento che dovrebbe far pagare al Nord globale i danni della crisi climatica nelle nazioni più povere. Washington ha promesso 17 milioni di dollari. Spiccioli anche in termini assoluti, e la valutazione peggiora se si paragona questo impegno a quelli degli alleati. Emirati Arabi Uniti, Francia, Germania e persino l’Italia hanno promesso 100 milioni ciascuno.
Gli Stati uniti contro l’idea stessa di un fondo per il loss and damage
D’altronde è all’idea stessa di loss and damage che gli Usa storicamente si oppongono. Quando i giornalisti presenti a Dubai hanno interrogato Kerry sul tema, l’ex segretario di Stato si è sempre riferito all’iniziativa come «Climate Impact». Titolazione soft, usata di fatto solo dagli statunitensi perché percepita come meno impegnativa. Il nostro è un aiuto – è il messaggio della Casa Bianca- non il risarcimento dei danni dovuti alle nostre emissioni come il Sud globale vorrebbe.
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Il finanziamento a mitigazione ed adattamento nel Sud globale è uno dei punti chiave del processo negoziale e della transizione ecologica in generale. Senza la necessaria mobilitazione finanziaria, nei prossimi decenni vedremo inevitabilmente un’esplosione di infrastrutture fossili in Africa, America Latina e Asia. Un’apertura occidentale – e statunitense – sul tema è anche uno dei possibili punti di svolta della Cop28. «Per molti Paesi in via di sviluppo, la divergenza [rispetto al phase out, ndr] non riguarda l’ambizione, ma la questione dei mezzi di attuazione», ha detto Barbara Creecy, ministra dell’Ambiente sudafricana, durante l’ultima ministeriale del summit di Dubai.
Le bombe (made in Usa) su Gaza colpiscono il multilateralismo
C’è poi la questione della credibilità del negoziato. Le trattative che da quasi trent’anni l’Onu porta avanti – nel caso specifico tramite l’Unfccc – sono criticate in Occidente per la loro scarsa efficacia e l’influenza del lobbismo fossile. Ma fuori dalle due coste dell’atlantico occidentale l’opinione pubblica vede l’impotenza delle Nazioni Unite sopratutto come un risultato dell’egemonia statunitense.
«Mi aspetto che il voto di ieri al consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite influisca sulla Cop», ha scritto su X l’analista Nathalie Jones dell’IISD Global Subsidies Initiative. Il riferimento è al veto che gli Stati Uniti hanno posto sul cessate il fuoco a Gaza – nonostante il parere favorevole della quasi totalità delle nazioni rappresentate. La diplomazia climatica non è una materia isolata, ma al contrario risente profondamente delle tensioni che attraversano l’attualità. E Gaza è risuonata con forza in molti degli interventi dei leader durante Cop28.
Nel corso dell’ultimo round di incontri tra i ministri presenti alla Cop28 molti Paesi hanno ricordato l’importanza del multilateralismo. Interventi da leggere come inviti alla cooperazione, ma per diversi analisti appare in controluce la critica a chi le istituzioni Onu le ha spesso ignorate o bloccate tramite il veto. «Sostenete il multilateralismo», ha detto l’inviato cinese. «Perché il sistema delle Nazioni Unite non funziona? Questa è una cartina di tornasole per il multilateralismo», gli ha fatto eco il ministro dell’Ambiente del Banglasdesh.
Il capofila che manca alla Cop28, ma più in generale nell’azione climatica mondiale
«Gli Usa contano appena il 4% della popolazione globale, ma sono responsabili di quasi un quarto delle emissioni accumulate in atmosfera. Sono primi al mondo per produzione di greggio e hanno visto l’export di gas naturale esplodere del 300%», spiega Victor Menotti, portavoce della Global Campaigne to Demand Climate Justice.
Menotti è intervenuto in una conferenza stampa indetta alla Cop28 da un’alleanza di ong e movimenti statunitensi allo scopo di «discutere la miriade di tattiche che gli Stati Uniti stanno usando per evitare di fare la loro parte a Cop28». Le critiche mosse dagli attivisti mettono in luce il bilancio di quattro anni di amministrazione Biden in campo climatico. Nonostante l’abbandono del negazionismo trumpiano e i fondi stanziati in infrastrutture ecologiche – dalle rinnovabili alle ferrovie – gli Stati Uniti non sembrano avere l’autorità morale per porsi come capofila della transizione ecologica globale.
Diplomazia climatica
Vi prego, ridateci la Cop
Le Cop sono sempre più kermesse in cui l’industria nella migliore delle ipotesi va a fare affari, nella peggiore a condizionare i negoziati
Questo stesso ruolo non sembrano pronti ad occuparlo né Cina né Europa. La prima è ormai la principale installatrice di energia pulita, ma rimane affamata di carbone come nessuna altra nazione e ai tavoli negoziali è sostanzialmente conservatrice. La seconda è sicuramente più progressista in contesto Cop e meno dipendente dai fossili in casa – ma rimane lontanissima dal rispetto dell’Accordo di Parigi ed è distratta da crisi energetica e guerra in Ucraina.
Un problema per tutti. Perché di un capofila forte e credibile la diplomazia climatica avrebbe un disperato bisogno.