Le strategic litigation che spingono l’azione sul clima (e non solo)
Il contenzioso strategico, anche su temi climatici, è al centro dell'attività di un'associazione italiana. Che ha già ottenuto risultati significativi
Si chiama StraLi, acronimo di strategic litigation. È la prima associazione in Italia focalizzata sul contenzioso strategico, sul clima ma non solo. Quelle cause dove «si lotta per uno ma si vince per tutti», dice Lorenzo Sottile, dottore di ricerca in Diritto costituzionale presso l’università di Genova, che in StraLi coordina i team “Ambiente e generazioni future” e “Diritti digitali”.
Com’è nata StraLi?
Siamo un’associazione di volontari nata a Torino nel 2018. Oggi contiamo circa 25 membri, non solo avvocati. Siamo attivi in ambito penale, civile e amministrativo. Puntiamo molto sull’interdisciplinarietà, con competenze su varie tematiche: dalla tutela delle persone migranti all’accesso alla giustizia, da business e diritti umani ai diritti digitali, all’ambiente. E poi svolgiamo attività di formazione, ricerca e advocacy (col sostegno di Fondazione Crt e il contributo di laureandi in ambito giuridico, StraLi ha scritto una “Carta della Terra”, in corso di pubblicazione, che ha presentato nei licei torinesi per sensibilizzare gli studenti su clima e ambiente, ndr).
Cos’è il contenzioso strategico (strategic litigation), su cui avete scelto di focalizzarvi?
È una tecnica di matrice anglosassone, particolarmente utile in ordinamenti di common law ma che sta prendendo piede anche in ordinamenti di civil law. Si basa sull’individuazione di un caso giudiziario specifico il cui esito può produrre impatti positivi per la collettività, creando una giurisprudenza positiva. Perché fa nascere o riconoscere un nuovo diritto, o perché promuove il rafforzamento della tutela di diritti già esistenti ma a volte solo sulla carta. Spesso comporta tempi lunghi perché l’obiettivo strategico, fatto salvo che l’interesse del cliente viene sempre e comunque perseguito, è raggiungere le più alte Corti, i cui pronunciamenti hanno un grado di cogenza molto forte. Ma va bene anche se si vince presto, cioè in primo grado, perché può incentivare lo sviluppo di buone prassi. Il rischio, invece, è che l’esito cristallizzato dalle alte Corti sia negativo, diventando un grosso problema.
Quali sono i risultati più importanti che avete raggiunto?
Ne cito due, ai quali abbiamo collaborato insieme ad altre realtà. La storica decisione con cui il Comitato per i diritti umani dell’Onu ha richiesto a Malta di intraprendere un’azione immediata per adempiere ai suoi obblighi internazionali riguardo al salvataggio di persone in difficoltà in mare. E il ricorso presentato contro il governo cinese, depositato in Argentina, per crimini contro l’umanità ai danni della comunità uigura, in cui è stata invocata l’applicazione della giurisdizione universale.
Il contenzioso strategico su temi ambientali è generalmente più complesso per una serie di ragioni: non è un tema classico, è profondamente intrecciato con questioni economiche e in alcuni casi mancano leggi e rimedi effettivi. In quest’ambito, stiamo valutando se esista in Italia un caso a cui applicare uno schema di contenzioso, a cui stiamo lavorando, molto simile a quello del caso Lliuya v. RWE in Germania. Qui per la prima volta un Tribunale superiore ha riconosciuto il nesso tra eventuali disastri ambientali ed emissioni di gas serra collegate ad attività industriali. Altrimenti su questi temi finora abbiamo lavorato soprattutto attraverso la “Rule 9”.
Cos’è la Rule 9?
L’articolo 9, paragrafo 2, del Regolamento del comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa, che supervisiona l’esecuzione delle sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu), dice che le Ong possono presentare comunicazioni al Comitato in vista di determinati obiettivi. Quando è condannato dalla Cedu, uno Stato deve redigere un piano d’azione per dare esecuzione alla sentenza, comunicando al Comitato cosa sta facendo. Ma potrebbe comunicare in modo, diciamo, poco realistico. Con la Rule 9 possiamo inserirci in questo dialogo, trasmettendo informazioni o facendo raccomandazioni per rafforzare l’azione di supervisione del Comitato. Lo abbiamo fatto in due casi in cui l’Italia è stata condannata: il caso Di Sarno, legato alla “Terra dei Fuochi”, e il caso Cordella, anche noto come caso Ilva. Ottenendo in entrambi che il Comitato tenesse aperto il monitoraggio, che è un segnale forte perché rappresenta uno strumento di pressione.
Come valuta il momento che stanno vivendo le climate litigation?
Vedo che soprattutto a livello sovranazionale si sta prendendo una direzione importante. Come quella indicata dalla Cedu nel caso delle Anziane per il clima, dove in sostanza si afferma che i giudici nazionali possono decidere sul clima. A oggi la ritengo la sentenza più importante. In Italia, invece, nei casi Giudizio Universale (contro lo Stato italiano) e La giusta causa (contro Eni, il ministero dell’Economia e delle finanze e Cdp), a cui non abbiamo collaborato ma che seguiamo con interesse essendo ancora aperti, i giudici finora hanno eccepito proprio un difetto di giurisdizione. Infatti, hanno affermato che la sfera delle scelte sul clima è politica e il potere giudiziario non può entrarvi. entrarvi. Ma la pronuncia della Cassazione a luglio ha invece definitivamente chiarito che le cause climatiche in Italia sono lecite e ammissibili.
Le cause climatiche sono guardate con crescente attenzione dal climattivismo perché ottengono risultati. Ma li ottengono in tempi molto lunghi, mentre la crisi climatica è qui e ora. Come spiega questo apparente paradosso?
Gli Stati firmano l’Accordo di Parigi ma poi non varano le politiche per attuarlo. Voglio dire che se la politica è disattenta alle questioni climatiche, o addirittura le ignora consapevolmente, lo strumento più efficace per incidere su questi processi restano i tribunali e il contenzioso strategico. Richiedono tempo, è vero. Ma sono un potentissimo fattore di accelerazione.
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