Clima, Sultan al-Jaber detta la linea in vista della Cop28

Pur ammettendo la necessità di abbattere le fonti fossili, il presidente della Cop28 al-Jaber pone già una serie di paletti

Il sultano al-Jaber, presidente della cop28 © Pool PEUE/Chema Moya

Il tentativo è duplice. Da una parte, inserirsi (almeno formalmente) nel solco di ciò che da tempo chiedono le Nazioni Unite, a partire dal segretario generale Antonio Guterres. Dall’altra, tentare (almeno formalmente) di restituire un minimo di fiducia di fronte alla comunità internazionale e, in particolare, alla società civile

Le premesse preoccupanti per la Cop28 di Dubai

Protagonista il Sultan al-Jaber, nominato presidente della ventottesima Conferenza mondiale sul clima delle Nazioni Unite, la Cop28 che si terrà nel prossimo mese di dicembre a Dubai. Gli Emirati Arabi Uniti, infatti, sono come noto una nazione fortemente dipendente dalla produzione ed esportazione di petrolio. E al-Jaber è amministratore delegato della compagnia petrolifera degli Emirati Arabi Uniti Adnoc (Abu Dhabi National Oil Company), colosso mondiale delle fossili.

Quanto basta per lasciare ipotizzare una Cop estremamente tesa e difficile. E poco aiuta pensare che lo stesso al-Jaber sia anche presidente di un’azienda – la Masdar, nota anche come Abu Dhabi Future Energy Company – specializzata nello sviluppo delle energie rinnovabili. Società che non pubblica alcun bilancio, ma secondo le informazioni disponibili e diffuse dalla stampa internazionale avrebbe un fatturato di 172 milioni di dollari, con circa 650 dipendenti. La Adnoc, per capirci, ha circa 55mila dipendenti e un fatturato di 60 miliardi di dollari (dato del 2014). 

Le richieste di 18 Paesi: «Picco delle emissioni mondiali entro il 2025»

Di fronte a queste premesse oggettivamente preoccupanti, il ricco uomo d’affari arabo ha scelto di tentare la via delle promesse “pragmatiche”. Ciò mentre si è di recente tenuto un summit ministeriale per l’azione climatica, battezzato MoCA, a Bruxelles. Ad animarlo, una coalizione di diciotto Paesi, capeggiata dalle Isole Marshall, che chiedono «un’uscita urgente dalle fonti fossili». E il raggiungimento «del picco delle emissioni di gas ad effetto serra entro il 2025». Ciò in quanto, è sempre bene ricordarlo, il quantitativo di gas climalteranti disperso ogni anni nell’atmosfera continua ad aumentare, nonostante decenni di negoziati internazionali. 

A partecipare è stato anche il commissario europeo all’Ambiente, Frans Timmermans, che ha tentato di porre un primo paletto. Occorre abbandonare i combustibili fossili unabated (ovvero privi di sistemi di recupero della CO2 prodotta). E farlo ben prima del 2050. 

«Non ho la bacchetta magica»

Di fronte al primo, ancorché timido, tentativo di avanzare un po’ rispetto a ciò che occorrerà fare a Dubai, la prima risposta di al-Jaber è stata… coerente. Il petroliere ha fatto capire che il suo “pragmatismo” potrebbe rappresentare il paravento per tutti i negoziati: «Non ho la bacchetta magica. Non posso inventare delle date prive di giustificazione», ha dichiarato all’agenzia AFP. «Non possiamo porre fine al sistema energetico attuale – ha aggiunto – senza prima aver costruito quello di domani». 

Chi vuol capire, capisca: alla Cop28 non ci saranno “corse in avanti”. E ciò benché al-Jaber abbia ammesso che una riduzione delle fossili sia «inevitabile» e «essenziale». Il tecnocrate propone di triplicare la capacità produttiva delle rinnovabili entro il 2030, raggiungendo gli 11mila gigawatt di potenza installata. Raddoppiare poi l’efficienza energetica e portare la produzione di idrogeno a 180 milioni di tonnellate, sempre entro i prossimi sette anni. 

Al-Jaber non rinuncia all’obiettivo degli 1,5 gradi

Ma senza un contemporaneo crollo dell’uso di carbone, petrolio e gas, tutto ciò appare del tutto insufficiente rispetto all’obiettivo di limitare la crescita della temperatura media globale ad un massimo di 1,5 gradi centigradi, entro la fine del secolo, rispetto ai livelli pre-industriali. Obiettivo che però, secondo al-Jaber, resta «a portata di mano». 

La questione della mitigazione dei cambiamenti climatici, “dimenticata” dalla Cop27, dovrà essere dunque nuovamente al centro dei negoziati alla Cop28. Che dovrà poi affrontare un altro tema, strettamente legato alla finanza climatica. Mobilitare il denaro necessario per far sì che ciò che è stato deciso alla Cop27 di Sharm el-Sheikh, in particolare sulla questione delle perdite e danni (loss and damage) patiti dai Paesi più poveri e vulnerabili della Terra di fronte ai cambiamenti climatici. 

La partita tutta da giocare del loss and damage

Il testo aveva indicato, infatti, in modo generico, la volontà di «creare un fondo di intervento in caso di perdite e danni». Affiancato da un «comitato di transizione» che sarà incaricato di stabilire le regole di funzionamento del nuovo strumento. Occorrerà capire, in che modo questo fondo verrà finanziato, da chi, e soprattutto quali saranno i Paesi beneficiari. Con la Cina che, nonostante il gigantesco quantitativo di emissioni di gas ad effetto serra che disperde ogni anno in atmosfera e nonostante sia ormai una potenza industriale globale, si ostina a voler rimanere classificata come nazione in via di sviluppo. Proprio per poter accedere ai fondi.

Dagli Stati Uniti l’ennesimo ostacolo in questo senso. L’inviato speciale sul clima del governo di Washington, John Kerry, ha spiegato a chiare lettere che «gli Stati Uniti non pagheranno le riparazioni ai Paesi in via di sviluppo colpiti da catastrofi alimentate dal clima». E pazienza se queste sono state alimentate proprio dall’uso di combustibili fossili che per decenni ha sostenuto e arricchito il nord del mondo. Stati Uniti ed Europa in testa.