Tassonomia, quanto peserà davvero dipenderà dalla politica
Dall'interpretazione che i governi daranno delle norme dipenderà buona parte degli impatti concreti della tassonomia europea
Con Shakespeare, il portale di informazione online Rienergia si domanda se il recente inserimento di gas e nucleare fra le attività ambientalmente sostenibili nella cosiddetta Tassonomia ambientale europea altro non sia che tanto rumore per nulla.
Alcuni articoli, come sempre seri e documentati, sostengono che tale inclusione abbia in realtà un impatto limitato se non nullo. In particolare Luigi De Paoli (università Bocconi di Milano) discute sulla effettività di tale scelta e anche Michele Vitiello (direttore della Fondazione Ottimisti & Razionali) non si discosta da questa lettura “minimalista” del voto al Parlamento europeo. Nella sostanza si sostiene che i criteri che la Commissione europea ha adottato per l’inserimento di queste attività fra quelle sostenibili siano talmente restrittivi da renderli inefficaci.
In particolare De Paoli sostiene che lo siano per il nucleare in Italia a causa del ritardo che il nostro Paese ha accumulato in questo settore a causa delle scelte politiche del passato. Ma dimentica, forse, che gli effetti del Regolamento Ue 2022/1214 non riguardano solo il nostro Paese ma tutti quelli dell’Unione. E, per quanto riguarda il gas, anche i nuovi impianti installabili in Italia (ma, di nuovo, parlare dell’Italia è una lettura davvero troppo limitata) saranno difficilmente “taxonomy compliant” perché occorrerebbero impianti di cattura e stoccaggio di CO2 (oggi neppure allo studio) o limitando fortemente le ore di funzionamento (rendendoli così inefficaci).
Conclude De Paoli che tutto il dibattito, polarizzante e manicheo, si sia fondato su un “astratto principio generale” (del resto indotto dall’intento definitorio stesso del Regolamento, che distingue fra attività “buone” e “cattive”). Un dibattito ideologico, dunque.
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Ma una domanda sorge spontanea: se la sostanza del provvedimento è così poca cosa, allora perché tanto rumore? Cioè, perché un così massiccio schieramento di lobby a pressare i parlamentari europei per un inserimento che era stato inizialmente escluso nel primo Regolamento Ue 2021/2139, basato sugli stessi criteri di vaglio tecnico definiti dalle strutture tecniche della Commissione?
Si potrebbe pensare che vi sia una ignoranza di fondo di governanti e parlamentari delle implicazioni tecniche così limitanti che ha spinto ad un voto non consapevole fino in fondo dei pro e contro l’inserimento. È un tema, questo, assai interessante per l’analisi politologica dei processi decisionali nelle democrazie moderne, che qui non esamineremo. Ma è plausibile che una analoga ignoranza albergasse dalla parte dei lobbisti delle grandi aziende del gas e del nucleare? Francamente non ci sembra.
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Possiamo allora pensare che anche i lobbisti di queste imprese confidino nella evoluzione tecnologica dei due settori, che consenta di mitigare gli impatti ambientali negativi e migliorare l’efficienza operativa necessaria alla compliance normativa. Questo è uno scenario più plausibile, ma a condizione che si pensi ad una dilatazione temporale degli effetti applicativi della tassonomia almeno tali da consentire agli sviluppi tecnici di intercettarli.
Ma qui entra in gioco una domanda legata a una questione fondamentale, che sfugge alla lettura un po’ semplificatoria sul dibattito di principio e manicheo offerta da De Paoli e Vitiello: a cosa davvero serve la tassonomia ambientale europea? Certamente ad indirizzare flussi finanziari verso attività ambientalmente sostenibili, accelerando così la transizione verso un sistema energetico e produttivo veramente sostenibile.
Ma di quali risorse effettivamente parliamo? Chiaramente il Regolamento sulla tassonomia opera una scelta di indirizzo politico. Cioè tende a privilegiare dei settori di attività (88 di cui 25 nel settore energetico) funzionali alla transizione e non esclude certo in assoluto gli altri settori non sostenibili, né che essi possano essere finanziati, da risparmio privato gestito e da risorse pubbliche.
Ma appare evidente che il legislatore europeo pensa, in primo luogo, alle risorse europee – molte e immediatamente disponibili – che sono state individuate dal Green Deal europeo. Perché tutti i nuovi impianti, nucleari e alimentati a gas, rientrano nella sfera di intervento diretto degli Stati, che sanno benissimo che la gran parte delle risorse pubbliche attingibili sono state destinate dalla Commissione europea per il progetto di transizione verso la sostenibilità.
Anche gli stessi sviluppi tecnologici, necessari a diventare taxanomy compliant, possono trovare risorse solo e soltanto qui. Con la ri-nazionalizzazione dell’azienda elettrica francese EDF, non è difficile immaginare che – approfittando di una tassonomia ambientale che include il nucleare – il governo francese potrà lanciare sul mercato dei “green bonds” per finanziare l’estensione della vita dei reattori nucleari ormai giunti alla fine del periodo quarantennale di esercizio e che per questo sono fermi.
Inoltre, i lobbisti sanno perfettamente che l’indirizzo politico adottato dall’Unione europea tende a favorire un settore di investimenti, quello delle rinnovabili in energia, che sta già crescendo da almeno due decenni in Europa. Il rischio che essi intravedono è che le quote di mercato delle fonti tradizionali, chiaramente non “verdi”, si riducano drasticamente nei prossimi anni. Tale spostamento di equilibrio nei mercati appare loro più veloce di quanto le stesse aziende che rappresentano siano in grado di adattarsi alle nuove condizioni (un cambiamento che deve considerarsi fisiologico nel mondo imprenditoriale). Come spiega Davide Panzeri (responsabile politiche europee di Ecco) in un altro intervento nello stesso portale Rienergia, le centrali a gas per essere considerate verdi, dovranno riconventirsi a gas rinnovabili o a basso contenuto di CO2 (biometano, idrogeno, metano sintetico) in un tempo troppo rapido (2035), con inefficienze e risorse insostenibili per le aziende stesse.
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D’altronde lo stesso Regolamento delegato 2022/1214 con cui si inseriscono nella tassonomia ambientale gas e nucleare lo ricorda a premessa: «I criteri di vaglio tecnico stabiliti dal regolamento delegato (UE) 2021/2139 della Commissione si applicano a una serie di attività e settori economici che hanno il potenziale di contribuire agli obiettivi dell’Unione in materia di mitigazione dei cambiamenti climatici e di adattamento ad essi. Tali attività e settori economici sono stati scelti per via della quota che rappresentano nel totale delle emissioni di gas a effetto serra e del loro comprovato potenziale contributo a evitare di produrle, ridurle o eliminarle. Inoltre tali attività e settori economici hanno dimostrato la potenziale capacità di consentire ad altre attività e altri settori economici di evitare di produrre emissioni, ridurle ed eliminarle, o di immagazzinare a lungo termine le emissioni per tali altri settori e attività».
Se questa fosse una lettura plausibile del perché del grande rumore fatto attorno a questo Regolamento, si può supporre che i lobbisti confidino – diciamo così – nella particolare flessibilità dei governi dei Paesi membri nella lettura del principio di fondo della tassonomia europea. Cioè, i criteri di vaglio tecnico che consentono di definire a quali condizioni una attività economicamente rilevante sia da considerarsi sostenibile, e dunque finanziabile con i fondi del Green Deal europeo, richiedono che essa contribuisca in modo sostanziale alla mitigazione (o all’adattamento) dei cambiamenti climatici e che non arrechi danni significativi a nessun altro obiettivo ambientale. Tutto sembra reggersi su quella congiunzione (e) e sui termini sostanziale e significativi. Ma, si sa, la politica può prescindere dalla grammatica e adattarsi alle convenienze del momento come poche altre attività umane. Resiliente e autosostenibile.