In 10 anni gli Stati perderanno 4.700 miliardi di dollari nei paradisi fiscali
Ogni anno i paradisi fiscali sottraggono agli Stati miliardi di dollari. Un voto alle Nazioni Unite potrebbe cambiare le cose
4,7 trilioni di dollari, o 4.700 miliardi, o 4.700.000 milioni. A tanto ammonterebbero le perdite che gli Stati affronteranno nei prossimi dieci anni per via dei paradisi fiscali. Cifre difficili da immaginare, che invece di finanziare welfare e spesa pubblica rimarranno nelle tasche di multinazionali e ricchi individui.
A dare questi numeri è Tax Justice Network, un think tank globale specializzato nel rapporto tra disuguaglianze e fiscalità. I numeri sono contenuti in uno studio pubblicato pochi giorni fa.
Disuguaglianze
Perché è urgente una riforma fiscale nel nostro Paese
Estratto del libro “La mutazione italiana. Perché è urgente una riforma fiscale nel nostro Paese”, scritto da Alessandro Volpi
L’Ocse contro i Paesi poveri
Il problema dei paradisi fiscali è noto da tempo. Si tratta di nazioni, spesso molto piccole, che offrono ad aziende e ricchi individui trattamenti economici iper-favorevoli, incoraggiandoli a trasferire in loco le proprie sedi fiscali. Una politica economica aggressiva che danneggia sia i Paesi di provenienza delle grandi aziende, sia i mercati in cui quelle stesse corporation operano. Alcuni tra i paradisi più famosi sono Stati insulari come le Isole Cayman o le Barbados. Ma anche nazioni europee come Irlanda, Svizzera e Lussemburgo rientrano nella categoria.
Del tema si discute a tutti i livelli da decenni, ma senza una soluzione apparente. Gli autori dello studio, oltre a fornire le cifre di cui sopra, offrono una lettura politica. È la resistenza dei Paesi appartenenti all’Ocse (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) – dicono – a frenare qualunque risultato. Si tratta di un’organismo internazionale che raccoglie i più ricchi Paesi occidentali (tutta l’Europa, gli Stati Uniti) e quelli politicamente vicini all’Occidente come Giappone e Corea. È l’Ocse ad aver guidato negli anni tutti i negoziati sulla limitazione del fenomeno – si legge nel documento – e i risultati sono nulli. La timidezza di queste nazioni si spiega, sempre secondo Tax Justice Network, con il lobbismo delle grandi aziende, che hanno sede proprio nelle capitali dei Paesi Ocse.
I più danneggiati, al contrario, sono i Paesi a basso reddito. Nel rapporto si legge come la gran parte delle perdite fiscali annuali sia subita dalle nazioni ricche. Si parla di 462 miliardi ogni dodici mesi. Ma se li mettiamo in relazione con le risorse disponibili, sono le nazioni africane, sudamericane e del sud-est asiatico a pagare il prezzo più salato. I ricercatori dimostrano che le perdite legate ai paradisi fiscali equivalgono ad appena il 9% dei bilanci della sanità pubblica dei Paesi ad alto reddito. Le perdite fiscali dei Paesi a basso reddito – 46 miliardi di dollari – equivalgono invece a più della metà dei loro bilanci per la sanità pubblica: il 56%.
Un problema di democrazia
La leadership mantenuta dall’Ocse nel gestire i negoziati sul fisco è un problema, scrivono i ricercatori, e per questo va superata. L’alternativa che trova l’appoggio di Tax Justice Network è rappresentata dallo trasferimento di competenze dall’Ocse all’Onu – organo ritenuto rappresentativo di tutta l’umanità e non solo dei Paesi più ricchi.
Lo scorso anno l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha approvato a maggioranza una risoluzione in questo senso. L’ipotesi di un negoziato Onu per la riforma del fisco globale ha trovato l’appoggio dei Paesi africani, che ne sono promotori, e del Parlamento europeo. I Paesi latinoamericani e caraibici si riuniranno a breve per darsi una linea comune, ma gli analisti sono convinti che anche loro si uniranno alla platea dei favorevoli. Entro fine anno un secondo voto potrebbe dare il via alla leadership fiscale dell’ONU. Ma il suo esito è tutto fuorché scontato.
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«Siamo sulla soglia di una rivoluzione democratica globale in campo fiscale che potrebbe recuperare letteralmente trilioni di dollari di denaro pubblico», scrive in una nota Alex Cobham, chief executive di Tax Justice Network. «Per sessant’anni, le regole fiscali globali sono state decise a porte chiuse dall’Ocse, dove una manciata di Paesi e di lobbisti ha visto la politica fiscale come qualcosa che soddisfa gli interessi delle società più ricche e dei miliardari. Ora abbiamo una possibilità concreta di portare questo processo alla luce del sole della democrazia all’Onu, dove tutti i Paesi avranno finalmente voce in capitolo e dove i governi dovranno finalmente rispondere ai loro cittadini in materia di politica fiscale»