Perché è urgente una riforma fiscale nel nostro Paese

Estratto del libro "La mutazione italiana. Perché è urgente una riforma fiscale nel nostro Paese", scritto da Alessandro Volpi

Alessandro Volpi
Il sistema fiscale ha una base imponibile talmente ridotta da rendere la progressività inapplicabile © hyejin kang/iStockPhoto
Alessandro Volpi
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Riportiamo di seguito un estratto del libro “La mutazione italiana.
Perché è urgente una riforma fiscale nel nostro Paese. Come salvare la nostra democrazia, la finanza, il debito, lo Stato”, edito da Altreconomia (2023) e scritto da Alessandro Volpi, docente di Storia contemporanea, di Storia del movimento operaio e sindacale e di Storia sociale presso il dipartimento di Scienze politiche dell’università di Pisa.

Per capire meglio la situazione fiscale del nostro paese possono servire altri numeri che, in realtà, parrebbero incredibili e che, di fatto, generano una condizione di vera e propria emergenza.


Da una recente ricerca realizzata dal centro studi e ricerche Itinerari previdenziali emergono dati davvero singolari. Il 57% degli italiani, vale a dire oltre 14,5 milioni di famiglie su un totale censito da Istat di 25,7 milioni, vive in media con meno di 10mila euro lordi l’anno. Più nel dettaglio esisterebbero quasi 15 milioni di italiani che vivono con 3.500 euro lordi all’anno e altri 11,66 milioni che vivrebbero con una media di 11.250 euro lordi l’anno.

Questi dati sono ricavati dalle dichiarazioni dei redditi del 2019 da cui emerge anche che i contribuenti delle prime due fasce di reddito (fino a 7.500 e da 7.500 a 15mila euro) sono 18.140.077, pari al 43,68% del totale dei dichiaranti. In totale questi dichiaranti pagano solo il 2,31% di tutta l’Irpef. In sostanza ben oltre la metà degli italiani sarebbe decisamente molto povera – non arriva a 10mila euro lordi l’anno – e quasi la metà paga Irpef per quattro miliardi sul totale di 175 miliardi annui.

Da un’analisi ancora più dettagliata si rileva che i contribuenti Irpef sono stati 41,5 milioni per un reddito complessivo dichiarato di 844 miliardi di euro e un valore medio di poco meno di 22mila euro. In realtà quelli che hanno versato l’imposta sono stati 31,2 milioni, perché 10,4 milioni non hanno presentato la dichiarazione in quanto titolari di livelli reddituali compresi nelle soglie di esenzione o le cui imposte sono state azzerate per effetto delle detrazioni previste. In realtà ci sono poi altri 2,4 milioni di soggetti la cui imposta è compensata per intero dal bonus degli 80 euro.

Se si esaminano ancora meglio i dati emerge che il 70% dei contribuenti, quelli con redditi compresi fra 15 e 70mila euro, versano il 67% dell’intero carico fiscale. È evidente, alla luce di ciò, che sarebbe decisamente opportuno rimodulare la pressione fiscale nel nostro Paese per evitare che questa fascia di popolazione tenga insieme gran parte delle entrate fiscali italiane. I dati citati confermano infatti che la riduzione degli scaglioni di aliquota e la perdita di progressività del sistema fiscale italiano nel suo insieme, unite all’accentuazione delle disuguaglianze generate dalla pandemia, non sono più sostenibili in termini sociali. Ciò è reso ancora più indispensabile da un’ulteriore considerazione che riguarda il “fisco europeo”, su cui torneremo più avanti. […]

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La copertina del libro “La mutazione italiana” di Alessandro Volpi © Altreconomia

In estrema sintesi esistono dunque due questioni chiare rispetto al tema delle tasse in Italia, la progressività e la sostenibilità. Il sistema fiscale ha una base imponibile talmente ridotta da rendere la progressività, principio costituzionale fondamentale, inapplicabile se non a danno dei redditi da lavoro e da pensione. Attualmente, infatti, le entrate tributarie dipendono troppo dall’Irpef che è pagata praticamente solo da lavoratori dipendenti e pensionati.

L’evoluzione storica delle imposte è molto chiara in tal senso. Nel corso del tempo dall’Irpef, che già non contemplava i redditi da capitale e da fabbricati, sono state escluse numerose fonti di reddito, così come è avvenuto per l’Irap che ha finito per gravare come l’Irpef, di fatto, sugli stessi soggetti, peraltro con aliquote ridotte. Considerazioni analoghe valgono per le addizionali comunali all’Irpef. Al di fuori dei redditi da lavoro e da pensione sono moltiplicate le cedolari secche e le flat tax e continua la pressoché totale esenzione fiscale per le piattaforme digitali, rispetto alle quali per ottenere un prelievo sarebbe indispensabile agire sui ricavi e non sui profitti. Nel contempo, i redditi da lavoro e da pensione sono penalizzati sul versante della spesa sociale perché l’applicazione di una progressività distorta fa sì che paghino spesso per prestazioni che non ricevono mentre tutte le altre forme di reddito ricevono prestazioni che, in larghissima parte, non pagano.

In estrema sintesi, se non si cambia la base imponibile ampliandola a tutti i redditi e non solo a quelli da lavoro, la progressività è lo strumento per impoverire la platea sociale che oggi regge la gran parte della spesa pubblica finanziata con le imposte.

In merito alla sostenibilità i dati sono altrettanto chiari. Gli occupati sono scesi sotto la soglia dei 23 milioni, un dato decisamente inferiore a quello di altri paesi europei. Di questi 23 milioni, i lavoratori autonomi sono circa 5 milioni, mentre tra i lavoratori dipendenti, 3,2 milioni hanno un contratto a termine. Ma soprattutto oltre la metà dei nuovi occupati rientra in quest’ultimo gruppo.

Se questi dati si traducono in simulazioni fiscali emergono tutte le difficoltà a mantenere il gettito necessario alla vita del paese. Secondo gli ultimi dati infatti dei circa 40 milioni di contribuenti, una ventina sono lavoratori dipendenti che versano in termini di Irpef circa 90 miliardi su un totale di 150. Di questi 90 miliardi, quasi il 40% dei contribuenti, tuttavia, non versa nulla. In altre parole, i redditi più bassi non pagano; se, dunque, l’occupazione si sposta verso i redditi più bassi, con retribuzioni insufficienti, il carico fiscale si concentra ancora di più su una fascia troppo limitata di popolazione e, pur alzando l’aliquota massima – come sarebbe auspicabile – la tenuta dell’intero sistema si complica molto.

Ancora più critica è la situazione in relazione al lavoro autonomo. Dei 5 milioni di autonomi quelli che risultano titolari di un reddito attivo sono circa 1,8 milioni, ma in questo caso, ancor più che in quello dei lavoratori dipendenti, il numero dei contribuenti “reali” è concentrato: il 48% dei lavoratori autonomi paga il 95% del gettito dell’intera categoria. A questo quadro grave si aggiungono due elementi. Il primo riguarda i pensionati, che sono circa 16 milioni, di cui i contribuenti sono circa 10 milioni, anche in questo caso con una forte concentrazione per cui il 54% dei pensionati dichiara il 93% di tutta l’Irpef pagata da questa categoria. Il secondo aspetto si riferisce al fatto che i “percettori di altri redditi”, tra cui i titolari di rendite finanziarie, sono circa 4 milioni, ma versano solo poco più di 5 miliardi di euro, pari al 3% circa del totale dell’imposta.

Se non si interviene sulla struttura delle retribuzioni e sulla formazione di redditi, migliorandone la qualità e promuovendo una maggiore solidità diffusa, è sempre più difficile far funzionare il sistema fiscale come strumento di redistribuzione.