Calcio, finanza e sportwashing. Quando si gioca oltre i confini del Donbass
Lo sportwashing oggi parla russo e arabo, con l’amorevole interesse dei fondi americani con sede nei paradisi fiscali
Le grandi dismissioni cinesi non significano che sia finito lo sfruttamento geopolitico del pallone, tutt’altro. Cominciato fin dagli albori, con le squadre più importanti a rappresentare industrie o apparati statali a livello nazionale e le peggiori dittature a livello internazionale, oggi si muove sul terreno della competizione globale tra colossi dell’energia (ex impero sovietico e penisola araba) e fondi speculativi (paradisi fiscali anglofili).
Del primo gruppo fanno parte Psg (Qatar), Manchester City (Abu Dhabi) e Chelsea (Russia). Del secondo Manchester United (Usa), Liverpool (Usa), Barcellona, Atletico e Real Madrid (formalmente azionariato popolare, in realtà in mano a istituti bancari e assicurativi). E se vogliamo la Juve, proprietà di una holding americana con esenzioni fiscali olandesi. In pratica, con l’eccezione del Bayern Monaco, sono le squadre che da più di dieci anni si sfidano tra loro nelle finali di Champions League.
In realtà, a guardare bene investimenti e quote di minoranza di tutte queste squadre – Bayern Monaco compreso – si nota più una collaborazione che non una competizione tra oriente e occidente. Seguendo la mappa del potere economico calcistico disegnata dal professor Simon Chadwick ecco che attraverso fondi come Fanatics o Silver Lake si entra nella galassia di riferimento di Softbank: il più grande fondo d’investimento privato che batte bandiera giapponese ma in realtà tiene insieme i soldi dell’Est e dell’Ovest.
Nella geopolitica del pallone si nota quindi una comunione d’intenti tra Russia e Stati Uniti, attraverso i fondi arabi, che altrove pare meno solida, per usare un eufemismo. E questo non vale solo a livello di club. Basti pensare che il main sponsor della Champions League, come degli Europei di calcio è il colosso delle fossili russo Gazprom. Mentre dopo i Mondiali di Russia 2018, quelli del 2022 si giocheranno in Qatar e quelli del 2026 negli Stati Uniti. Per Uefa e Fifa basterebbe il nome di Gianni Infantino, ex capo della Uefa e ora della Fifa, che fa ha spostato la famiglia e la residenza dalla Svizzera a Doha, in Qatar.
Tutto torna. Le grandi dismissioni cinesi – molto probabilmente il Mondiale 2030 che doveva essere a Pechino si giocherà invece in Africa o Sudamerica – non significano quindi il ritorno del calcio a una dimensione di comunità che non è mai esistita, ma l’abbandono di una strategia di softpower a favore di altre. Lo sportwashing oggi parla russo e arabo, con l’amorevole interesse dei fondi americani: la cui sede nei paradisi fiscali permette loro di operare a livello sovranazionale e di non preoccuparsi troppo delle schermaglie tra Putin e Biden e dei venti di guerra che soffiano sul confine ucraino del Donbass.