Clima e imprese, anche per le più impegnate gli 1,5 gradi sono un miraggio
Un’analisi della società Axylia evidenzia i grandi limiti degli impegni assunti nell’ambito dell’iniziativa Science Based Targets
Anche le aziende che si sono impegnate maggiormente nella transizione ecologica sono lontane dall’obiettivo più ambizioso dell’Accordo di Parigi. Ovvero limitare la crescita della temperatura media globale ad un massimo di 1,5 gradi centigradi rispetto ai livelli pre-industriali. A spiegarlo è un’analisi della società di consulenza specializzata in investimenti responsabili Axylia.
Lo studio ha analizzato 800 delle 1.000 società quotate e certificate SBTi
Lo studio ha analizzato 800 delle 1.000 aziende quotate in Borsa e che hanno ottenuto la certificazione dell’iniziativa Science Based Targets (SBTi). Quest’ultima è nata con l’obiettivo di coinvolgere gli investitori responsabili al fine di guidare le imprese nella definizione di obiettivi ambiziosi di mitigazione dei cambiamenti climatici. Un modo per “certificare” che la propria azione per porsi in linea con gli obiettivi fissati dalla comunità internazionale.
Ebbene il risultato è decisamente inquietante. Anche escludendo dall’analisi il cosiddetto “scope 3”, ovvero le emissioni indirette delle aziende, e concentrandosi dunque solo su una parte dell’impatto climatico dei business, gli impegni assunti consentiranno di ridurre le loro emissioni – tra il 2020 e il 2030 – di appena il 2%. Ovvero quanto occorrerebbe fare ogni anno, e non ogni decennio, secondo l’IPCC, il Gruppo intergovernativo di esperti sui cambiamenti climatici delle Nazioni Unite.
Il caso emblematico delle compagnie aeree
«Il metodo della SBTi presenta dei limiti. A nostro avviso, il principale problema è legato agli obiettivi, che sono espressi in termini di intensità energetica. Benché poche imprese siano coinvolte (solo l’11% per gli scope 1 e 2) esse rappresentano il 53% delle emissioni», precisa Ferdinand Raffy, analista di Axyilia, secondo quanto riportato dal quotidiano francese Novethic.
L’intensità energetica rappresenta un indicatore aggregato dell’efficienza energetica di un’azienda. E delle riduzioni di tale valore «possono risultare illusorie se non comportano una riduzione dei volumi delle emissioni di gas ad effetto serra». Di conseguenza, solo gli obiettivi di abbattimento diretto di queste ultime permettono di garantire un impatto positivo sul riscaldamento climatico.
L’analisi precisa che i settori dell’acciaio, del carbone e dei traporti aerei quelli più critici. Ad esempio, Air France-KLM, American Airlines, Lufthansa e Easyjet hanno ricevuto la certificazione SBTi. Eppure, secondo i calcoli di Axylia, «le emissioni delle compagnie aeree raddoppieranno di qui al 2030. Gli impegni legati all’intensità energetica (-30% in media per ciascun passeggero) sono annichiliti dalla crescita del traffico (+240% in media rispetto al 2020)».
«I miracoli non esistono: l’unica via per le imprese è rifondare i modelli di business»
Senza dimenticare, appunto, le emissioni indirette (scope 3), che non sono obbligatorie ai fini delle certificazioni SBTi benché rappresentino il 40% delle emissioni totali. Solo un’impresa su cinque ha degli obiettivi su tale porzione di CO2 dispersa nell’atmosfera. «Il problema – prosegue Raffy – riguarda principalmente il settore bancario, per il quale lo scope 3 o è quello che pesa di più in termini di emissioni di gas ad effetto serra».
Secondo l’analista, d’altra parte, per aggredire la crisi climatica l’unica strategia possibile è quella di impegnarsi seriamente e accettare una transizione profonda: «Non esistono soluzioni miracolose. Essere allineati all’Accordo di Parigi significa per le imprese un cambiamento totale dei modelli di business».