L’economia hipster che cambia il tessuto urbano. Intervista ad Alessandro Gerosa
Nel libro “The Hipster Economy”, il ricercatore indaga come il capitalismo si sia appropriato del concetto di autenticità
Nell’ultimo periodo diversi autori, atei e materialisti, hanno cominciato a interrogarsi sul ruolo del sacro nella contemporaneità occidentale. E hanno concluso che il sacro non è scomparso, per nulla. Anzi, il declino dell’Occidente si accompagna a una ricerca sempre più pervasiva dell’inviolabile in culti e pratiche esotiche, rideclinate in salsa neoliberale: dallo yoga al buddismo, dai Veda al sogno di aprirsi un chiringuito sulla spiaggia in Costa Rica.
La stessa indagine sembra farla anche Alessandro Gerosa, ricercatore all’Università di Milano. Nel suo libro The Hipster Economy, Taste and authenticity in late modern capitalism (Ucl Press, 2024) si interroga sul concetto di “autenticità” nell’economia del tardo capitalismo. Lo abbiamo intervistato per farci raccontare come questa nuova “economia creativa” abbia fatto presa ovunque, e sia riuscita addirittura a cambiare gli spazi urbani in cui si muove.
Partiamo proprio dal concetto di “autenticità”. In primo luogo, ti chiedo se accetti questo parallelo tra la ricerca dell’“autentico” nella merce e del “sacro” nel tempo libero. Quindi ti chiedo di spiegarci cosa intendi tu per autenticità e come declini questo concetto all’interno dei modi di produzione economici e culturali del tardo capitalismo.
Il parallelo tra l’autentico e il sacro mi sembra catturi molto bene una caratteristica essenziale della ricerca dell’autenticità nel tardo capitalismo, ovvero la sua fondamentale ambiguità. Da un lato, l’idea del sacro richiama l’idea marxiana della merce come feticcio. Da questo punto di vista, la crescente ricerca di un senso di autorealizzazione attraverso i consumi, soprattutto il “consumo esperienziale”, può essere interpretata con ragione come strategia adottata dal tardo capitalismo per mercificare le relazioni sociali. Ed estrarre profitto da ogni componente e desiderio della vita umana.
Dall’altro lato, la persistenza del sacro testimonia come gli individui rimangano fondamentalmente insofferenti agli effetti della società industriale e capitalista. E cerchino continuamente nuove strade per sfuggire ai suoi effetti nefasti. L’incredibile popolarità raggiunta da varie forme più o meno volgarizzate di misticismo tra i lavoratori dei settori simbolicamente più rappresentativi del tardo capitalismo – le industrie culturali e creative ma anche la finanza e i lavori manageriali – è una straordinaria testimonianza di questa commistione.
Con autenticità, io mi riferisco a queste astratte ma irriducibili aspirazioni che gli individui persistono a ricercare nella società moderna. Nel libro, provo a sintetizzare queste aspirazioni attraverso un trittico di “libertà di” e “contro”. Libertà di autodeterminarsi, contro la massificazione dell’individuo. Libertà di espressione creativa, contro la mercificazione delle relazioni. Libertà di esperienze di vita personali, contro la ripetitività della vita quotidiana.
Nel libro storicizzi la ricerca dell’autentico agli albori del capitalismo, dal romanticismo all’esistenzialismo, fenomeni di massa che si opponevano alla società di massa. Fino ai movimenti hippie e pseudo libertari degli anni Settanta, quando entriamo nel sistema postfordista. Ci racconti questa parabola?
Mi è sembrato importante raccontare questa parabola perché permette di disvelare due concetti chiave contenuti nel mio libro. Una, sul medio periodo degli ultimi cinquantanni, è l’emersione dell’autenticità come vero e proprio paradigma egemone di consumo. La grande maggioranza delle sottoculture e controculture occidentali dal secondo dopoguerra a oggi si fondavano sull’idea di rivendicare un’espressione personale autentica. Al di fuori e contro la cultura mainstream dominante nella società. Qualcosa ben sintetizzato dal termine inglese hip, che non casualmente fa da radice sia a hippies che a hipsters.
Questa grande parabola si è accompagnata però a una parallela commercializzazione dell’idea di autenticità. Casi emblematici sono quelli dei Beatles o ancora più dei Sex Pistols, che contenevano questa contraddizione tra ribellione e commercializzazione fin dal principio. L’essere hip diventa quindi progressivamente esso stesso un paradigma mainstream, specialmente nell’ambito dei consumi. Tuttavia, l’idea centrale della ribellione permane, ed è ciò che permette a questa estetica di consumo di presentarsi ancora come alternativa, nonostante il suo status ormai paradigmatico.
La seconda ragione è la valorizzazione di una lettura di lungo periodo contro letture miopi di breve termine. Solo così è possibile contestualizzare l’attuale ossessione per il consumo autentico come la forma più pura e compiuta di un processo avviatosi negli anni Settanta. O riconoscere il rapporto ciclico che lega le economie neo-artigianali diffusesi oggi ai movimenti che hanno “inventato” la concezione moderna di artigianato all’alba della società industriale di massa.
Altro aspetto fondamentale è come questo tipo di economia creativa sia stata in grado di mutare l’architettura sociale degli spazi urbani. E qui assume senso la nozione di “hipster”, utilizzata come lente d’indagine sociale. Ci racconti questo cambio di paradigma?
La “logica del villaggio”, come la chiamo nel mio libro, mira a ripristinare forme di socialità organizzate e diffuse, spesso servendosi della rete di attività commerciali neo-artigianali come infrastruttura geografica, simbolica e comunicativa. Rendendo effettivamente queste aree tra le più attrattive dove vivere per la nuova classe media urbana. Specialmente quella impiegata nelle industrie culturali creative dotata di alto capitale simbolico ma limitato capitale economico.
Tuttavia, ciò avviene inevitabilmente a scapito di altre comunità, più o meno visibili e più o meno desiderabili ma che sono anch’esse parte integrante del tessuto urbano. In primis quelle più fragili da un punto di vista socio-economico. Non solo: ciò accentua anche una nuova competizione intra-cittadina tra quartieri, dove la concentrazione di attività neo-artigianali si traduce nell’attrazione di lavoratori creativi e culturali. E nel possesso di un alto capitale simbolico che può poi essere facilmente convertito in valore finanziario tramite nuovi interventi immobiliari.
Non credi che questa ricerca dell’autenticità rischi di diventare un freno alla lotta contro la crisi climatica? Da entrambe le parti – le multinazionali che fanno greenwashing e i consumatori che comprano il detersivo bio, per capirci – sembra che anche questa battaglia si riduca a pura estetica del buono e del giusto. O per essere più cattivi, del buon gusto.
Separerei le due parti. Concordo pienamente con il fatto che l’economia dell’autenticità, se idealizzata come soluzione in sé alla policrisi – ecologica, ma non solo – della società contemporanea non possa che essere una mera postura estetica del buon gusto. Concordo anche che il concetto di autenticità come declinato dalle grandi imprese abbia favorito soluzionismi di stampo neoliberale alla crisi ecologica. Ingigantendo le responsabilità dei singoli consumatori e deviando l’attenzione dalle enormi responsabilità sistemiche, private e pubbliche, nei confronti di essa.
Tuttavia, questo è frutto della commercializzazione e della corruzione semantica dell’idea di autenticità da parte del capitalismo. Più che responsabilità delle attività commerciali parte dell’economia artigianale e delle legittime aspirazioni degli individui a forme di autenticità. Il nodo centrale diventa allora come siamo in grado di ingaggiare e vincere il conflitto simbolico attorno all’idea di autenticità.
Se non pensiamo alle attività neo-artigianali come a improbabili salvatori del Pianeta, ma come a luoghi di incontro e di comunità, dunque possibili infrastrutture al servizio di movimenti politici, sociali e culturali più ampi e complessi, allora essi possono diventare un tassello, piccolo ma fondamentale, per realizzare un’alternativa. Soprattutto, possono diventare nodi centrali di diffusione di concezioni più radicali e alternative di autenticità.
Per fare questo, è necessario superare una serie di ostacoli sostanziali. Innanzitutto, bisogna raggiungere forme di organizzazione e coordinamento a livello collettivo tra tutte le realtà che condividono una determinata concezione. Secondariamente, e forse ancora più decisivamente, è necessario superare l’attuale fondamentale dimensione di classe del neo-artigianato, che si ritrova immerso nella contraddizione di appellarsi a ideali lavorativi e di consumo rurali e popolari. Ma di farlo rimanendo fortemente limitato – per i propri lavoratori e consumatori – alla classe media urbana.