L’Italia nella morsa della povertà lavorativa: come rispondere?

Giovani, donne, stranieri, autonomi, con contratti atipici o part-time involontari: sono le persone a rischio di povertà lavorativa in Italia

L'Italia nella morsa della povertà lavorativa © manassanant pamai/IStockPhoto

Salari che diminuiscono mentre il costo della vita sale, tutele carenti (o inesistenti) per ampie fasce di lavoratori, un modello di produzione e consumo insostenibile. Tutti i dati a nostra disposizione confermano che in Italia inflazione e povertà, anche nella dimensione di povertà lavorativa, aumentano. E, con esse, crescono le disuguaglianze.

In Italia cresce la povertà, anche lavorativa

Nel 2022, in Italia, erano 5,6 milioni le persone che vivevano sotto la soglia di povertà. Si tratta di numeri in crescita rispetto al 2021, determinati non solo da fenomeni esterni come la guerra o l’inflazione ma anche da condizioni interne. Il mercato del lavoro offre sempre meno garanzie. Si chiama “flessibilità”, quando a parlarne sono datori di lavoro o interventi istituzionali, ma si traduce in “precarietà” quando si ripercuote sulle vite dei singoli. Così, per esempio, si trovano sotto la soglia di povertà il 14,7% delle famiglie operaie e l’8,5% di quelle con un lavoratore autonomo.

Nell’area Ocse (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico), l’Italia è l’unico Paese in cui i salari diminuiscono invece di aumentare. La riduzione è del 2,9% rispetto al 1990. Scende la retribuzione di chi lavora, ma non il costo della vita. La conseguenza? Nel 50% delle famiglie in povertà relativa, un lavoratore c’è ma il suo reddito non è sufficiente per rispondere alle necessità quotidiane. In compenso, salgono gli stipendi dei manager. Se nel 1980 quelli più pagati guadagnavano 45 volte la retribuzione dei propri operai, nel 2020 il dato è arrivato alla stratosferica proporzione di 649 volte di più. Il settore della moda, come segnalato dalla campagna Abiti Puliti, non fa eccezione. La classica di Forbes delle persone più ricche al mondo colloca al primo posto Bernard Arnault, patron del marchio di lusso Lvmh. Tra i 64 nomi italiani segnalati, ben 25 provengono da quel settore.

Chi sono i working poor

Negli ultimi due anni l’Italia ha visto l’inflazione crescere del 15%: crisi energetica e guerra in Ucraina sono arrivate ad aggravare una situazione già compromessa. La recessione successiva alla crisi del 2008-2009, la crisi del debito sovrano del 2011 e la pandemia nel 2020 avevano già inasprito il divario sociale. Su questo continuano a insistere speculazione e aumento dei profitti per le imprese.

La globalizzazione ha favorito la crescita delle forme di lavoro non standardizzate, meccanismo che ha messo in crisi la forza contrattuale dei sindacati e comportato la crescita del lavoro sommerso. Le uniche garanzie permanenti sono sbilanciate a favore dei lavoratori anziani stabili a tempo indeterminato. Quando si parla di povertà lavorativa, non ci si riferisce soltanto al guadagno orario ma anche a elementi come il numero di ore lavorate mensili o la continuità occupazionale del proprio settore o segmento di filiera. I lavoratori poveri sono giovani (16-34 anni), donne, stranieri, lavoratori autonomi, o sottoposti a contratti atipici, o a part-time involontari. In linea di massima, sono collocati al Sud e nelle piccole imprese.

I lavoratori a rischio di bassa retribuzione in Italia sono il 12%: si tratta di 3 milioni di persone che guadagnano meno di 11.500 euro l’anno. 400mila di questi si sono impoveriti dopo la pandemia. Se però si alza la soglia della povertà lavorativa di pochissimo, arrivando a 12mila euro annui, il numero di working poor arriva a rappresentare un terzo dei lavoratori. Solo nel settore privato, si attesterebbe tra il 20 e il 30% delle persone con un’occupazione retribuita.

Povertà lavorativa: strumenti per l’emergenza

Questi temi sono stati al centro di “Povertà lavorativa: strumenti per l’emergenza, dall’Ue all’Italia”, l’incontro promosso da Abiti Puliti e tenutosi a Roma mercoledì 14 febbraio. L’evento, organizzato dal nodo italiano di Clean Clothes Campaign e dall’Università Roma Tre, ha provato a costruire una risposta multidimensionale alla povertà lavorativa: salario minimo, declinato nell’accezione di salario dignitoso, ma anche misure di politica economica, fiscale, legislativa e contrattuale. Il contesto internazionale è essenziale. Sarebbe stata cruciale, in questo senso, la direttiva europea sulla due diligence su ambiente e diritti umani per le imprese. Un testo che, dopo due anni di negoziati, ora si trova bloccato.

Il contrasto alla povertà lavorativa passa però anche da interventi nazionali come strumenti di integrazione e sostegno al reddito, work benefit e riduzione di orari di lavoro a parità di salario, redistribuzione del lavoro ma anche più efficienza per le imprese. Si tratta di un processo multidimensionale di cui fa parte anche la revisione del modello di produzione e consumo. La corsa alla riduzione dei costi e la sovrapproduzione di merci di bassa qualità determinano importanti impatti in termini di ambiente, clima, diritti umani e disuguaglianze.

L’evento ha visto la partecipazione di rappresentanti di diversi attori sociali. Dall’accademia sono intervenute Laura Calafà, giuslavorista dell’università di Verona, e Marianna Filandri, sociologa dall’ateneo di Torino, oltre a Pasquale Tridico, ex presidente dell’Istituto nazionale della previdenza sociale (Inps) e docente di economia di Roma Tre, e Pasquale De Muro, economista della stessa università, con il ruolo di moderatore. Sono intervenuti anche Deborah Lucchetti per la campagna Abiti Puliti, rappresentanti delle imprese con Maurizio De Carli, responsabile del dipartimento relazioni sindacali della Confederazione nazionale dell’artigianato e della piccola e media impresa e Giovanna Labartino, economista del Centro Studi Confindustria. Per i sindacati, infine, hanno portato il proprio contributo Francesca Re David e Mattia Pirulli, rispettivamente della segreteria confederale di CGIL e CISL.

Non meno di 2mila euro al mese: ecco il salario dignitoso

Tra i contributi portati alla discussione emerge la proposta di metodologia di calcolo di salario dignitoso elaborata dalla Clean Clothes Campaign. Tenendo conto del costo della vita e guardando alla composizione familiare, spiegano gli attivisti, una persone che lavora 40 ore a settimana dovrebbe guadagnare 2mila euro netti al mese, 11,50 euro l’ora. L’aumento del costo della vita ha imposto una crescita di ben 95 euro rispetto al calcolo formulato appena un anno fa. Stando a queste cifre, però, l’Italia vedrebbe tre lavoratori su quattro al di sotto della soglia di povertà.

E non si intravede nessuna inversione di tendenza all’orizzonte. Come denunciato da Abiti Puliti, «la mancata approvazione da parte del Parlamento italiano di una buona legge sul salario minimo mentre molti CCNL attendono da anni di essere rinnovati o contengono minimi tabellari troppo bassi e persino incostituzionali manda un segnale chiaro: il governo non vuole veramente sconfiggere la povertà. Non vuole progredire».