All’assemblea generale di Shell anche gli azionisti si arrabbiano
I piani climatici tutti al ribasso di Shell sono stati respinti dal 22% dei votanti, obbligando il management a ritornare dagli azionisti
L’assemblea generale di Shell, tenuta all’InterContinental O2 di Londra lo scorso martedì 21 maggio, ha visto il 21,8% degli aventi diritto votare contro i piani climatici del gigante petrolifero britannico. Piani che negli ultimi tempi si erano fatti sempre più deboli e inconcludenti. Dopo aver rinunciato a ridurre la produzione petrolifera dell’1-2% all’anno, lo scorso marzo Shell aveva annunciato di puntare a ridurre le emissioni dal 15 al 20% entro il 2030. E non più del 20% come inizialmente previsto. Inoltre, pur sostenendo di voler raggiungere la emissioni zero entro il 2050, ha abbandonato l’obiettivo di cominciare a ridurle del 45% già entro il 2035.
Tutti questi passi indietro, uniti al fatto di considerare il gas naturale liquefatto come un elemento decisivo per arrivare alle emissioni zero, non sono passati inosservati. E così, come ampiamente previsto, all’assemblea generale degli azionisti si è scatenata una vera e propria battaglia. Preannunciata da ventisette piccoli investitori, che insieme detengono circa il 5% delle azioni dell’azienda, e che hanno unito le forze con l’associazione ambientalista olandese Follow This. E proprio su una risoluzione di Follow This si è consumato un durissimo scontro.
La risoluzione di Follow This e dei 27 piccoli investitori
Durante l’assemblea generale Follow This ha presentato una risoluzione, sostenuta dai 27 investitori, che chiedeva a Shell di allineare i suoi obiettivi di riduzione delle emissioni Scope 3 (le emissioni indirette ndr.) all’Accordo di Parigi. Questa risoluzione ha ottenuto il 18,6% dei voti. È un piccolo passo indietro rispetto al 20,2% ottenuto nel 2023. Ma è comunque la conferma che un quinto degli azionisti è pronto a dare battaglia sui temi climatici. E, se giustamente si può presentare la votazione dicendo che «la maggioranza degli azionisti di Shell vota per indebolire gli obiettivi climatici», come scrive il Financial Times, si può anche essere contenti del 20% che non lo ha fatto.
Il perché lo ha spiegato proprio durante l’assemblea generale Mark van Baal, fondatore del gruppo ambientalista Follow This. «In una democrazia azionaria, dove generalmente il 99% vota con il management, raggiungere anche solo il 19% è un chiaro segno di ribellione da parte dell’azionariato critico che, per una volta, pesa più dei maggiori investitori come BlackRock, Vanguard, State Street e Norges Bank messi insieme». Mentre il Ceo di Shell Andrew Mackenzie, che ha invitato a votare contro la risoluzione di Follow This, ha ripetutamente affermato che il mondo ha bisogno di una «transizione energetica equilibrata».
Ora Shell è in un bel guaio: deve riferire nuovamente agli azionisti
Il Ceo Andrew Mackenzie ha proseguito nel difendere gli interessi della multinazionale petrolifera. Sostenendo che gli investimenti nel petrolio e nel gas «devono continuare, per soddisfare i bisogni di milioni di persone che ancora non hanno accesso all’elettricità». E che «anche se può essere forte la tentazione di smettere di usare petrolio e gas prima che il mondo sia pronto, non dobbiamo farlo a scapito dei bisogni energetici e delle aspirazioni delle popolazioni del mondo». A quel punto gli attivisti di Fossil Free London hanno interrotto l’incontro gridando «Shell kills, Shell kills» sulle note di Jolene di Dolly Parton.
Ma oltre alla risoluzione di Follow This, votata dal 18,6% dei voti dell’assemblea, è stato il 21,8% dei voti contro la strategia climatica presentata dal management di Shell a mettere nei guai la multinazionale. Innanzitutto perché è un grosso passo avanti rispetto al 20% dei voti dello scorso anno. E poi, come spiega Mark van Baal, secondo i codici di governance aziendale del Regno Unito, se una società riceve almeno il 20% dei voti contrari su un determinato tema durante l’assemblea generale, è tenuta a riferire su nuove e eventuali azioni intraprese entro sei mesi dalla votazione. Ma questo ottenuto nei confronti di Shell non è l’unico successo dell’azionariato critico.
Adesso a ballare saranno tutte le multinazionali del fossile
Come ha detto a margine dell’assemblea generale Mark van Baal, «il voto di oggi ha provocato un’onda d’urto che si propagherà in tutto il settore. Poiché sempre più piccoli azionisti chiedono che le major petrolifere siano allineate all’Accordo di Parigi». E infatti, dopo l’assemblea generale di Shell del 21 maggio, ora tutti gli occhi sono puntati su quella della francese TotalEnergies di venerdì 24 maggio. Dove già negli scorsi anni c’erano state varie proteste, soprattutto da parte di Extinction Rebellion. Poi il 29 maggio ci saranno le assemblee generali di ExxonMobil e Chevron Corporation, due delle aziende fossili peggiori del Pianeta.
Secondo l’ultimo rapporto di Big Oil International, infatti, nessuna delle grandi multinazionali del petrolio e del gas – Chevron, ExxonMobil, Shell, TotalEnergies, BP, Eni, Equinor e ConocoPhillips – ha un piano climatico in linea con l’Accordo di Parigi. E ancora meno con la recente decisione della Cop28 di «favorire il percorso verso l’abbandono dei combustibili fossili». Sei di loro (Chevron, ExxonMobil, TotalEnergies, ConocoPhillips, Equinor ed Eni) hanno addirittura l’obiettivo esplicito di aumentare la produzione a breve termine. Ecco perché è una buona notizia la sempre più diffusa pratica dell’azionariato critico. Quando alle assemblee generali, nel loro piccolo, anche gli azionisti si arrabbiano.