Tra legge e utopia, l’era della sostenibilità «trasformativa»

Un volume fa il punto su norme e regolamenti sulla sostenibilità. Ma per trasformare il modello di sviluppo occorre cambiare i processi

Andrea Di Turi
Andrea Di Turi
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«Perché forse era solo una forza, un volo, un sogno, era solo uno slancio, un desiderio di cambiare le cose, di cambiare la vita»: si apre citando Gaber un volume curato da Giuseppe Taffari ed Emiliano Giovine, partner dello studio legale RP legalitax. S’intitola “Esg e sostenibilità d’impresa: novità normative, strumenti e modelli societari”, ma «non vuole proporsi – dicono gli autori – come un manuale del diritto della sostenibilità». In ogni caso il volume evidenzia come questi temi, specie in Europa, rientrino ormai stabilmente dell’agenda di legislatori e regolatori. Il libro viene presentato venerdì 15 novembre a Milano (ore 16:30 presso la sede di Avanzi) in un incontro a cui interverrà Gherardo Colombo.

Perché questo libro?

Volevamo partecipare con elementi di concretezza al dibattito su Esg e sostenibilità, che sta diventando un po’ sfuggente. È un lavoro collettivo dei colleghi dello studio, esperti in materie dal diritto penale a quello bancario, dalla finanza d’impatto al Terzo settore. Definirlo un instant book sarebbe inesatto, ma quando si parla di norme un libro inizia a invecchiare appena stampato, un po’ come l’auto appena uscita dal concessionario, perché c’è bisogno di una manutenzione costante rispetto all’evoluzione normativa. Ci sono poi argomenti che non siamo riusciti a trattare, che potrebbero essere oggetto di un futuro approfondimento.

Qual è il messaggio del libro?

Che l’approccio alla sostenibilità dev’essere trasversale. I profili giuridici della sostenibilità sono molteplici, ma bisogna interpretarli non come un “diritto verticale”, bensì attraverso le lenti dei vari ambiti del diritto. Ogni professionista del diritto, cioè, è chiamato a declinare questi temi nel proprio lavoro. Prendiamo la due diligence nei processi di acquisizione societaria: sempre più, nei suoi fattori di analisi, contemplerà rischi Esg (ambientali, sociali e di governance, ndr). Le aziende che s’impegnano in quest’ambito, quindi, non hanno bisogno di un consulente di sostenibilità, come dire, “tutto fare”, ma di competenze varie e complementari da mettere a fattor comune. Nella nostra esperienza quotidiana, vediamo che questo cambiamento inizia effettivamente ad avvenire.

Anni fa si diceva che la CSR inizia dove finisce la legge. Oggi la sostenibilità è diventata norma. Come si spiega?

Ci sono due fattori. Uno è il cambio di paradigma: ciò che prima era volontario, oggi sta diventando obbligo, con responsabilità e sanzioni precise. L’altro fattore è che la sostenibilità non può essere imposta. La norma da sola non basta: crea un quadro di regole comuni, dà fiducia e certezza, ma se si vuole andare oltre un approccio di compliance, bisogna puntare l’attenzione sui processi. Prendiamo la direttiva europea CSRD: ha avuto il merito di mettere al centro i temi di sostenibilità, prima visti come ancillari rispetto all’attività d’impresa, prevedendo che il report di sostenibilità sia parte della relazione di bilancio. Ma l’azienda non deve guardare al “prodotto”, cioè al bilancio di sostenibilità in sé, bensì a cosa c’è prima.

Anche la direttiva europea CSDDD potrà avere ricadute rilevanti in tal senso, perché imporrà ad aziende di grandi dimensioni un obbligo di monitoraggio concreto ed effettivo, oltre le mere clausole contrattuali, sui rischi di impatti potenzialmente negativi del proprio business su ambiente e diritti umani lungo tutta la catena del valore. Con riguardo, cioè, non solo a fornitori e sub-fornitori ma a distribuzione, logistica, a tutti i partner commerciali. Dando inoltre la possibilità agli stakeholder di chiedere conto ed eventualmente agire per ottenere risarcimenti. I processi da mettere a terra per generare impatto sono la chiave affinché norme come queste possano produrre effetti trasformativi.

Un esempio di processo trasformativo?

Nel libro raccontiamo di Faith In Nature, un’azienda britannica che ha fatto “sedere la natura” nel board. Ha dato rappresentanza formale, in termini ad esempio di voto e partecipazione al processo decisionale, a uno dei principali stakeholder, la natura appunto, inserendo nel board un rappresentante della natura. Stiamo studiando come ciò potrebbe essere integrato nel diritto societario italiano

Provando a fare da avvocato del diavolo con gli “avvocati della sostenibilità” (anche se non amate questa espressione): come si può assicurare sostenibilità, gestione sensata delle risorse, rinuncia al profitto se necessario, nell’ambito di un modello economico e finanziario che punta all’esatto opposto, coi noti risultati (vedere alla voce crisi climatica)?

A nostro avviso occorre ragionare non contrapponendo profitto e sostenibilità, ma su un modo diverso di generare profitto. I segnali che si stia evolvendo in tal senso ci sono: il codice di corporate governance delle società quotate dice che va perseguito il “successo sostenibile”; sono stati introdotti nuovi modelli d’impresa come le società benefit, le B Corp, le start up innovative a vocazione sociale. Si sta abbandonando la vecchia visione di Milton Friedman, secondo cui l’unico ruolo dell’impresa è fare profitto, e si guarda a un’impresa che persegue interessi anche diversi dal profitto.

Credete che ciò sia realizzabile o resterà un’utopia?

Non dovremmo avere la pretesa di ottenere risultati nel breve. La transizione verso la sostenibilità è un percorso che darà i suoi frutti nel lungo periodo. Ma se vogliamo parlare di utopia, Eduardo Galeano diceva che l’utopia è come l’orizzonte: a ogni passo che fai si allontana di un passo e sembra irraggiungibile. Però ti fa continuare a camminare.