Ci sono PFAS nell’acqua potabile in tutta Italia
Un'indagine di Greenpeace ha trovato tracce nell'acqua potabile tutta Italia. Nel nostro Paese due gravi contaminazioni: una è ad Alessandria, dove continua la produzione
I PFAS sono subdoli. La loro azione dannosa per la salute si manifesta con l’accumulo nei nostri organismi, dove entrano silenziosamente per non uscire mai più. Fanno irruzione nella dimensione più intima delle nostre vite, quella domestica. Scorrono dai rubinetti delle nostre case, quelle di tutta Italia, secondo la mappatura realizzata da Greenpeace Italia.
L’indagine di Greenpeace “Acque senza Veleni” ha raccolto campioni di acqua potabile nelle acque di 235 città distribuite in tutte le regioni. Nel 79% dei casi ha trovato presenza di diversi PFAS. Le molecole più diffuse sono il PFOA, già dichiarato cancerogeno e presente in quasi la metà dei campioni; il composto a catena ultracorta TFA, il più diffuso al mondo tra le molecole PFAS, per il quale però in Italia non esistono dati pubblici di misurazione; il PFOS, bandito dalla Convenzione di Stoccolma e dichiarato possibile cancerogeno dall’Agenzia delle Nazioni Unite per la ricerca sul cancro. In Italia ospitiamo due delle più gravi contaminazioni di PFAS a livello europeo in Veneto e in Piemonte, dove è ancora attiva la produzione.
Le concentrazioni di PFAS nell’acqua potabile rilevate da Greenpeace
L’analisi di Greenpeace ha trovato PFAS in almeno tre campioni di acqua potabile per Regione, a eccezione della Valle d’Aosta, dove ha analizzati sono due. In Liguria, Trentino Alto Adige e Veneto i PFAS sono presenti in tutti i campioni esaminati, in altre regioni si sfiora la totalità (in Veneto sono 19 su 20, l’Emilia-Romagna 18 su 19, in Calabria 12 su 13).
Chiaramente, i possibili rischi per la salute dipendono non solo dalla diffusione dei PFAS, ma anche dalla loro concentrazione. All’inizio del 2026 dovrà entrare in vigore la direttiva europea 2020/2184 che stabilisce in tutt’Europa il valore massimo di 100 nanogrammi per litro per la presenza complessiva di 24 PFAS nell’acqua potabile. Il campione prelevato da Greenpeace ad Arezzo supera questa soglia, con 104,3 nanogrammi per litro. Tutti gli altri sono al di sotto, ma merita attenzione Milano con 90,1 ng/l in via Padova e 58,6 in via delle Forze Armate. A Perugia si raggiungono i 57 ng/l.
Oltretutto, la stessa Agenzia europea per l’ambiente ritiene che il limite imposto dalla direttiva europea sia inadeguato a proteggere la salute umana. Paesi come Danimarca, Paesi Bassi, Germania, Spagna, Svezia e la regione delle Fiandre hanno già introdotto soglie più basse nelle legislazioni nazionali. Stessa cosa negli Stati Uniti. Il 41% dei campioni raccolti da Greenpeace sfora le soglie previste dalle leggi danesi. Il 22% supera quelle in vigore negli Stati Uniti.
Il caso della ex Miteni a Trissino, in Veneto
In provincia di Vicenza, a Trissino, c’è una delle contaminazioni più gravi d’Europa. L’azienda Miteni per anni ha prodotto PFAS che sono stati rilasciati nelle acque superficiali. Si sono diffusi nell’aria, nell’acqua, nella terra e nel sangue della popolazione in un’area tra Vicenza, Verona e Padova che conta circa 350mila abitanti.
La vicenda è iniziata sessant’anni fa quando l’azienda chimica locale Ricerche Marzotto (RiMar) acquistò i brevetti delle aziende produttrici di PFAS DuPont e 3M. Nel 1977 ci fu la prima denuncia da parte della popolazione locale: l’acqua dei rubinetti di casa era diventata gialla. Analisi successive svelarono la contaminazione da benzotrifloruri (BTF). RiMar passò per diverse gestioni fino alla definitiva acquisizione da parte di EniChem e Mitsubishi: divenne Miteni. Nel ’96 la proprietà passò interamente a Mitsubishi, che vendette nel 2009 alla tedesca ICIG per la cifra simbolica di un euro.
Le indagini sui PFAS nell’acqua potabile in Veneto
Per anni l’acqua contaminata è stata usata per l’agricoltura, è entrata nelle falde ed è stata consumata dalla popolazione e dagli animali. Un’indagine dell’Istituto di ricerca sulle acque (Irsa) del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr) con l’allora ministero dell’Ambiente svelò i livelli allarmanti di concentrazione nell’acqua potabile. Nel 2013, quando era tutto noto, l’ICIG comunicò all’ARPA del Veneto che sotto la fabbrica c’era un’altissima contaminazione da PFAS e altre sostanze. Si chiamò fuori da qualsiasi responsabilità. Erano state le gestioni passate. Indagini successive del Nucleo operativo ecologico dei Carabinieri dimostrarono che, in segreto, avevano già fatto interventi idraulici contenitivi. Sul territorio vennero installati filtri a carboni attivo per la distribuzione di acque potabili e cominciarono i biomonitoraggi della popolazione.
La regione fu divisa in area rossa, arancione, gialla e verde a seconda della gravità della contaminazione. Gli 85mila cittadini residenti in area rossa parteciparono a un piano di sorveglianza sanitaria regionale che mostrò altissime percentuali di PFAS nel loro sangue. Scoppiò il caso mediatico. Era il 2016, la ex Miteni continuava a lavorare sul territorio. Non produceva più PFAS: si occupava di purificare i filtri a carbone attivo degli stabilimenti di Dupont (poi Chemours) di Dordrecht, nei Paesi Bassi.
Nell’autunno del 2018 la proprietà ha dichiarato il fallimento: troppo elevati i costi di adeguamento degli impianti e di bonifica del sottosuolo. Nel 2019 è cominciato il processo per inquinamento ambientale.
A Spinetta Marengo si producono ancora PFAS
Come ricorda Giuseppe Ungherese, responsabile della campagna Greenpeace, nel nostro Paese non esiste una legge che vieti la produzione e l’utilizzo di queste molecole. Lo dimostra il fatto che ci sia una fabbrica che ancora li produce. È la ex Solvay – oggi Syensqo – di Spinetta Marengo, ad Alessandria. Qui si produce il cC6O4, trovato nelle acque potabili di Torino, della Val di Susa e in provincia di Sondrio. Le falde sotto lo stabilimento hanno la concentrazione di Cc604 più alta d’Europa e 100 volte più alta anche dei livelli di PFOA della ex Miteni. Nell’aprile scorso sono state trovate schiume sospette nel fiume Bormida, in corrispondenza degli scarichi dell’azienda. Ne è seguito uno stop alle attività dello stabilimento che è durato oltre 30 giorni. L’azienda ha ripreso le sue normali attività lo scorso 26 luglio, con il via libera della Provincia di Alessandria.
Un studio dell’Asl di Alessandria ha rivelato un eccesso di mortalità locale rispetto alle medie regionali. Per gli uomini le cause sono melanoma, malattie reumatiche croniche, ipertensione arteriosa e asma. Per le donne, tumori del rene e malattie reumatiche croniche. Proprio in questi mesi si attendono i risultati di un nuovo biomonitoraggio effettuato nel 2024. Anche se non ci sono ancora i risultati definitivi, si sa che nel sangue analizzato ci sono tracce della miscela di PFAS Adv e di Cc604. Il dato è rilevante: sono entrambi prodotti esclusivamente dallo stabilimento. E sono stati trovati anche dai deposimetri Arpa in città: sono nell’aria.