«Meno Stato, meno ambiente e diritti»: i pensieri del “capitale” pro-Brexit

Il voto che sta spingendo Londra fuori dalla Ue favorisce un'imprenditoria che punta a un'area con pochi vincoli, tasse e regole

Andrea Giannotti
Andrea Giannotti
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Brexit o non Brexit? Mentre il Regno Unito si arrovella in un dilemma degno delle tragedie del suo Bardo, ma con risvolti farseschi che ricordano la commedia politica italiana, restano tutt’altro che univoche le ragioni di chi ha votato “Leave”, cioè per “lasciare” l’Unione Europea.

Imprenditori, razzisti operai spaventati

Anzi siamo in presenza di una eterogenesi dei fini che vede unite una parte delle forze imprenditoriali e ciò che resta della classe operaia. Le prime sono intente a rincorrere un ammorbidimento post-Brexit della legislazione sul lavoro e la seconda votata ad arginare l’afflusso indiscriminato di manodopera immigrata pronta ad accettare le più modeste condizioni salariali o di lavoro.

In mezzo troviamo un altrettanto multiforme schieramento che raggruppa gli ultimi nostalgici della destra xenofoba e nazionalista, i moderati ceti rurali tradizionalmente legati al Partito Conservatore e un crescente sentimento antisistema trasversale ad appartenenze sociali, politiche, economiche o territoriali.

A leggere i grandi giornali europei o una parte di quelli britannici, sembrerebbe trattarsi di un voto “di pancia”, irrazionale, becero ed autolesionista. Ma queste analisi risultano troppo spesso superficiali o propagandistiche.

Sì, è vero che gli imprenditori rischiano almeno nel breve termine una flessione della congiuntura economica e una probabile contrazione dei profitti o che gli operai dello stabilimento Nissan di Sunderland subiranno licenziamenti dopo l’annuncio di questi giorni che la produzione del nuovo SUV X-Trail avrà luogo altrove; o, ancora, che i piccoli imprenditori rurali dovranno rinunciare nel giro di tre-quattro anni ai cospicui sussidi della politica agricola europea.

La finanza scommette sull’accordo con la Ue

Ma la contraddizione è solo apparente. Queste categorie non pensano di aver sbagliato i conti. I sondaggi non lasciano trasparire ripensamenti e anzi danno per probabile un’altra vittoria del Leave nel caso (remoto) di un secondo referendum.

L'andamento dei sondaggi sull'esito di un eventuale secondo referendum sulla Brexit. Periodo 28 Giugno 2016 - 19 Marzo 2019. FONTE: Whatukthink.org sulla base di 64 sondaggi effettuati da diversi istituti.
L’andamento dei sondaggi sull’esito di un eventuale secondo referendum sulla Brexit. Periodo 28 Giugno 2016 – 19 Marzo 2019. FONTE: Whatukthink.org sulla base di 64 sondaggi effettuati da diversi istituti.

Pur tra gli spasmi politici degli ultimi mesi, la sterlina ha recuperato oltre il 6 per cento sull’euro dai minimi di dicembre – vale ora oltre 1,17 –, segno che la finanza internazionale scommette su una soluzione mediata. Certo non siamo ancora al cambio di 1,30 della vigilia del referendum, ma su un punto sembrano essere tutti d’accordo: l’economia andrà (quasi certamente) peggio, prima di andare (auspicabilmente) meglio.

L'andamento del cambio Sterlina vs. Euro negli ultimi 5 anni. FONTE: Tradingview.com
L’andamento del cambio Sterlina vs. Euro negli ultimi 5 anni. FONTE: Tradingview.com

La teoria del «sacrificio necessario»

«Un sacrificio necessario per restituire al Regno Unito libertà d’azione sul fronte dei dazi», sostiene Alex Deane, già direttore del Grassroots Out Movement, tra le principali associazioni della campagna referendaria pro-Brexit, favorevole a una soluzione ordinata e non contrario a un accordo con l’Europa. «L’uscita dall’UE consentirà di sostituire costosi prodotti europei con alternative più a buon mercato e in molti casi di uguale qualità dall’Estremo Oriente (Cina in particolare) e dall’America Latina».

In una conversazione con Valori, Deane cita l’esempio dei pannelli fotovoltaici e del tessile asiatico o dell’agro-alimentare australiano, canadese e sudamericano. E afferma che «in Francia l’import extra-UE impiega pochi secondi a passare dogana». Gli sembrano quindi totalmente ingiustificati, se non del tutto propagandistici, sia l’allarmismo economico che la corsa all’accaparramento evocati in questi mesi.

È figlia di questo spirito anche la recente presa di posizione del Regno Unito sulla vicenda Huawei, il colosso cinese delle telecomunicazioni e dei telefonini contro cui gli Stati Uniti di Trump hanno lanciato una nuova Guerra Fredda della tecnologia. Poco importa se l’alleato americano teme pericoli per la sicurezza, ha fatto sapere il Governo di Sua Maestà. La componentistica hardware di Huawei resta la migliore e più economica alternativa per la costruzione delle nuove reti 5G.

Delocalizzatori pro-Brexit…

Tra le più note figure imprenditoriali pro-Brexit troviamo Sir James Dyson, il brillante re-inventore di aspirapolveri, ventilatori e asciugacapelli, e Lord Anthony Bamford – patron del colosso JCB (escavatrici) –, convinti che il Regno Unito trarrebbe vantaggio dal gestire la propria politica commerciale indipendentemente da Bruxelles.

Dyson ha recentemente trasferito il suo quartier generale a Singapore, ma già fabbricava in Asia la totalità dei suoi prodotti, esportati poi in tutto il mondo, Europa compresa. Forse non c’è da stupirsi se ha sostenuto ripetute battaglie legali con l’UE sulla regolamentazione.

A questi si aggiunge Tim Martin, fondatore della catena di pub JD Wetherspoon, che ha iniziato a sostituire champagne francese, prosecco italiano e birra tedesca con alternative britanniche. Ha ripetutamente criticato il piano di Theresa May e i suoi tentativi di accordo con “rappresentanti UE non eletti”, sostenendo che, al di fuori dell’Europa, la Gran Bretagna sarebbe in grado di rimuovere le barriere tariffarie sulle importazioni da paesi terzi, portando a prezzi più bassi per i consumatori.

…come finanzieri e inquinatori

Seguono Lord Simon Wolfson e Luke Johnson, a capo di grandi catene di vendita al dettaglio quali Next (abbigliamento) e Patisserie Valerie – ora risorta grazie a un management buyout (riacquisto da parte dei manager) seguito a un fallimento che ha notevolmente incrinato la reputazione di Johnson –, fautori di una politica dell’immigrazione che dia alle imprese più facile accesso alla manodopera.

Non mancano il mondo degli investimenti e della finanza speculativa rappresentati rispettivamente da Dame Helena Morissey, Head of Personal Investing presso il fondo Legal & General (oltre mille miliardi di sterline in gestione) e dal magnate degli hedge fund, Crispin Odey. La Morissey ha più volte denunciato l’approccio “top-down, command-and-control, one-size-fits-all” (approccio gerarchico, di controllo centralizzato, valido per tutto e per tutti) agli affari e alla politica da parte dell’UE mentre Odey – accusato di aver massicciamente scommesso contro la sterlina post-referendum – ha evocato a gennaio il rischio rivoluzione se la Brexit dovesse finire nel congelatore.

E non poteva mancare il settore del petrolio e della chimica con Sir Jim Ratcliffe, fondatore di INEOS. L’uomo più ricco del regno (con una fortuna stimata dal Sunday Times in 21 miliardi di sterline) sostiene che la Gran Bretagna fiorirebbe fuori dall’UE. Intanto, dopo aver esercitato forti pressioni per ridurre tasse ambientali e restrizioni al fracking (la tecnologia di estrazione di petrolio e gas dalle rocce di scisto mediante acqua e solventi inquinanti ad altissima pressione), ha deciso di trasferire il proprio quartier generale nel Principato di Monaco, per un risparmio fiscale di £4 miliardi, e di investirne £2,7 nel più grande impianto europeo di cracking dell’etano e di deidrogenazione del propano ad Anversa, in Belgio.

Brexit cavallo di Troia per l’ultraliberismo

«I Conservatori pro-Brexit hanno un’ideologia fortemente neo-liberale fatta di tasse più basse, deregolamentazione e ultra libero-scambio» ammette Bill Emmott, ex direttore dell’Economist e ora a capo dell’International Institute for Strategic Studies (IISS), rispondendo alle domande di Valori.

«Penso che diverse aziende sotto la gestione diretta di singoli imprenditori, tendano a preferire uno stato più leggero. Non credo però che si aspettino meno regolamentazione sul lavoro, ma sperano senz’altro in una qualche deregulation sul fronte ambientale e della sicurezza».

I timori del sindacato britannico

Di diverso avviso Frances O’Grady, segretario generale della Trade Union Confederation (TUC), il sindacato britannico, secondo la quale i falchi della destra Tory «sostengono pubblicamente che la Brexit è un’opportunità per tagliare i diritti dei lavoratori. Il loro primo obiettivo è la direttiva UE sull’orario di lavoro (2003/88/EC) che prevede limiti di sicurezza alla durata dei turni, diritto alle ferie retribuite e parità di trattamento per i lavoratori interinali».

La maggior parte degli imprenditori britannici si oppone a una Brexit dura e sono particolarmente preoccupati da un’eventuale uscita senza accordo (no-deal), confida O’Grady a Valori. Ma quelli che hanno votato Leave lo hanno fatto per un insieme di ragioni.

«I globalisti come Sir James Dyson – afferma la leader del TUC – sognano che la Gran Bretagna diventi una “Singapore on Sea” con bassa tassazione, bassa regolamentazione e pochi sindacati liberi. Altri, come Tim Martin che guida la catena di pub JD Wetherspoon, sono nazionalisti nostalgici. Sono alleati della destra del partito conservatore e vedono l’idea che le loro società debbano giocare secondo le regole dell’UE – in particolare sui diritti dei lavoratori – come un affronto alla sovranità britannica».

Caos e declino internazionale

A questo punto cosa c’è da aspettarsi? «Il caos economico nel breve, poi una maggiore insicurezza e un declino dello status internazionale del Regno Unito nel lungo termine» prevede Geoff Andrews, professore di Politica alla Open University, storico e scrittore di diversi libri di cui uno sull’Italia – Not A Normal Country: Italy After Berlusconi – e un altro sulla storia del movimento Slow Food.

«Non è stata la Brexit a creare divisioni ma le divisioni a produrre la Brexit» afferma Andrews in un commento inviato a Valori. «La vittoria del Leave al referendum è stata il frutto di un voto di protesta più vasto e profondo del malcontento nei confronti solo dell’Europa. È stato un responso anti-élite, non dissimile da quello che ha portato Trump alla Casa Bianca». Il risultato è che si assisterà molto probabilmente a un abbassamento degli standard in diversi settori e in particolare in quello della legislazione ambientale.

Emmott: cruciali le prossime elezioni

Ritiene probabile lo scenario della deregulation generalizzata anche Bill Emmott, ma solo nel caso in cui siano i Tory a vincere le prossime elezioni. Eventualità però molto remota, secondo l’ex direttore dell’Economist, che prevede che il Regno Unito passi prima attraverso una reazione populista di sinistra, con maggiore tassazione e maggiore intervento pubblico negli affari.

«Non tanto a causa della Brexit – afferma Emmott –, ma perché alle prossime elezioni i cittadini voteranno probabilmente contro il partito di governo, e quindi per i laburisti che saranno così liberi dai vincoli UE sugli aiuti di stato».

Sarà per questo che il leader del Partito Laburista Jeremy Corbyn, rompendo per la prima volta un lungo riserbo, ha dichiarato in un’intervista con Sky News il 17 marzo che voterebbe Brexit in caso di secondo referendum?

L’impressione è che la saga sia solo all’inizio.