Un giubbino invernale e i massimi sistemi
Riflessioni sulla storia di un giubbino vecchio di dodici anni, sui diritti e i cambiamenti nei nostri consumi. Al di là delle mode
Nel 2009 ho comprato un giubbino invernale di lana di Paul Smith, uno stilista britannico molto raffinato e un po’ eccentrico, per quasi 500 euro. Era un periodo in cui avevo soldi sul conto e volevo gratificarmi con un regalo speciale. Da allora non ho più comprato altre giacche del genere e quest’anno la sto portando per la dodicesima stagione consecutiva.
La profezia dell’amministratore delegato di H&M
Non comprare vestiti, o comprarli solo quando sia strettamente necessario – per esempio quando si strappa il cavallo dei jeans – mi dà piacere, non per un qualche motivo etico ma perché mi fa sentire indipendente dalle mode e, quindi, un po’ più libero. E poi giocare a fare il minimalista è una posa della mia classe sociale medio-borghese, urbana e istruita: dopo avere avuto tutto il necessario giochiamo a non desiderare più nulla.
A volte penso che, se tutti si comportassero come me, cosa peraltro impossibile visto che 500 euro per molti è uno stipendio mensile, si avvererebbe la profezia dell’amministratore delegato e proprietario di H&M, colosso svedese del fast fashion (la moda usa e getta), Karl-Johan Persson.
Riscaldamento globale
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Nel 2019 ha detto che se i giovani che protestano contro i cambiamenti climatici continuano a condannare i consumi e i viaggi in aereo, l’ambiente non ne beneficerà un granché ma ci dovremmo aspettare terribili conseguenze sociali, perché in sostanza milioni di operai sottopagati di H&M, Zara, Primark, Mango e via discorrendo perderebbero il lavoro e ricadrebbero in una grave situazione di povertà.
Il nostro è un sistema profondamente malato
Il ragionamento di Persson ha una sua logica nel sistema profondamente malato nel quale ci troviamo a vivere. La stessa che porta numerosi Paesi europei a spalancare le porte ai centri logistici di Amazon, perché «almeno si crea occupazione», qualsiasi tipo di occupazione.
I marchi del fast fashion, grazie al grande serbatoio di manodopera a basso costo cinese e del sud-est asiatico, hanno fatto crollare i prezzi dei vestiti, aumentando il potere di acquisto delle classi meno agiate dell’occidente. Il costo sociale per i Paesi poveri – come dimostrano il caso Rana Plaza e decine meno noti – è però altissimo e lo è anche l’impatto sull’ambiente: ogni anno milioni di tonnellate di vestiti finiscono in discarica o sono bruciati negli inceneritori.
Il mio giubbino è stato prodotto in Portogallo da operai con contratti di lavoro europei ed essendo di lana si biodegraderebbe facilmente nell’ambiente. Quindi all’interno della mia bolla sociale posso vantarmi di avere fatto tutto giusto.
Un cambiamento generalizzato nelle abitudini di consumo sarà lento
Ci sono però migliaia di persone che non hanno soldi per un giubbino del genere o non hanno voglia di mettersi la stessa giacca per dodici anni o comprarsi i vestiti usati su ebay, per i loro legittimi motivi o anche solo perché nella loro classe sociale non è ancora un trend.
Il commento
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Energia, trasporti, riscaldamento globale. E gli intrecci con la finanza. Ogni settimana il punto sui cambiamenti climatici firmato da Andrea Barolini
Non si può pretendere che tutti diventino paladini del consumo responsabile e un eccessivo moralismo è fastidioso e sortisce spesso effetti opposti a quelli desiderati.
Un cambiamento generalizzato nelle abitudini di consumo, se ci sarà, sarà necessariamente lento. Allo stesso tempo, però, possiamo agire sui legislatori, a livello nazionale ed europeo. E sulle stesse imprese, come azionisti critici.
La recente ratifica, da parte del Parlamento italiano, della Convenzione ILO sull’eliminazione della violenza e delle molestie sul luogo di lavoro, su pressione della Campagna Abiti Puliti, dimostra che vale la pena percorrere anche queste strade.