Terra: l’accaparramento rallenta, la deforestazione no
Cosa ci lasciano vent'anni di land grabbing? Di corsa speculativa alla terra? Deforestazione senza garantire cibo e lavoro. E l'anonimato degli investitori nei paradisi fiscali
Terra bene prezioso. Tanto che l’attività speculativa e spasmodica per accaparrarsene la proprietà e l’usufrutto – il fenomeno del land grabbing – ha destato gravi preoccupazioni nel recente passato. Un rapporto della Land Matrix Initiative (LMI) racconta 20 anni di questa corsa per la terra. E traccia un bilancio dei benefici e dei danni, delle promesse mantenute e, soprattutto, disattese che le grandi transazioni fondiarie internazionali (sopra i 200 ettari) ci stanno lasciando. Le cosiddette LSLA (Large-scale land acquisition), ovvero le acquisizioni di terra su larga scala.
Fame di terra: esplosa nel 2008, potrebbe ripartire sospinta dal Covid
Una cavalcata alla conquista dell’appezzamento migliore, più grande e più produttivo per i fini dell’agroindustria, soprattutto, avviata nei primi anni Duemila e poi sostenuta dall’impennata dei costi delle materie prime alimentari scatenata nel 2007/2008, con la crisi finanziaria globale. Fino al rallentamento dal 2010 e alla stabilità avviata nel 2013, rimanendo però su numeri elevatissimi di ettari scambiati annualmente. Da un minimo di 2 milioni e 700mila ai circa 3 milioni del 2020 (a seguito di quasi 1.900 accordi fondiari).
A tirare il freno sarebbero state proprio le aspettative dei prezzi via via più moderate, associate inoltre a un cambio delle politiche di vario tipo che hanno raffreddato i bollori speculativi. L’introduzione di moratorie fondiarie in Paesi importanti. Il calo del sostegno ai biocarburanti di prima generazione. E le restrizioni alla vendita della terra a investitori stranieri. Tuttavia – secondo i ricercatori di LMI – il trend potrebbe invertirsi ancora sulla spinta delle economie che cercano di riprendersi dalla crisi indotta dalla pandemia di Covid19. «Alcuni Paesi, tra cui Indonesia e India, hanno già liberalizzato i propri mercati fondiari per attirare investimenti stranieri», si legge nel report.
Terra da coltivare: più deforestazione e meno biodiversità
Il problema, del resto, è che quando le transazioni riguardano superfici sterminate anche i loro effetti si moltiplicano. E poiché «le LSLA sono un motore fondamentale del cambiamento nell’uso del terreno, contribuiscono in modo sostanziale alla deforestazione, alla distruzione degli habitat e al degrado del suolo. Di conseguenza, sono associate a massicce perdite di biodiversità ed elevate emissioni di CO2, in particolare quando sono colpite le foreste pluviali tropicali». E la considerazione – amara – è purtroppo suffragata dai numeri.
Esaminando i dati di 964 accordi fondiari geolocalizzati nelle regioni tropicali per una superficie totale relativa a 19 milioni di ettari, i ricercatori hanno scoperto che «mentre circa 9,4 milioni di ettari erano ancora boschivi nel 2000, quest’area era stata ridotta del 20,2% (1,9 milioni di ettari) entro il 2019». Non solo. «Nell’Asia orientale e nel Pacifico, ad esempio, nel 2000 circa il 74% dell’area intorno alla posizione degli accordi era ancora boscosa, una quota che è diminuita di 16 punti percentuali negli ultimi 20 anni (principalmente a causa
dell’espansione della palma da olio in Malesia e Indonesia, ma
anche attraverso nuove frontiere agricole in Cambogia, Cina,
Laos e Vietnam)».
Troppo spazio per le colture più assetate
L’espansione di certa agricoltura a colpi di centinaia d’ettari non sostiene evidentemente il rimboschimento, ma nemmeno tutela delle risorse idriche. Almeno stando al fatto che il 54% di tutte le operazioni registrate nel database Land Matrix sono destinate alla produzione di colture ad alta intensità di consumo d’acqua. Cotone, palma da olio, gomma, e canna da zucchero, per esempio. Un elemento preoccupante, che talvolta grava su regioni dove la scarsità idrica è un problema endemico. Ben il 34% degli affari esaminati, infatti, riguarda zone aride, «con il 10% delle quali che produce colture che richiedono grandi quantità di acqua».
Lavoro e reddito, promesse non mantenute
E poi c’è il capitolo che riguarda gli impatti diretti del land grabbing sulla vita delle persone. Poiché le LSLA sviluppate sulle grandi estensioni determinano spesso una sorta di azzeramento di consolidate attività di micro-agricoltura e pastorizia, magari nomade, e il conseguente spostamento obbligato delle comunità locali. Una migrazione per motivi economici su cui si innesta anche un piano di aspettative disattese legate agli importanti progetti di sfruttamento – perlopiù – agroindustriale cui le LSLA sono connesse. E che talvolta non partono mai.
«Solo le colture ad alta intensità di lavoro, come gli ortaggi e le rose, possono replicare su larga scala l’intensità di lavoro delle piccole aziende agricole (stimata in due posti di lavoro permanenti per ettaro). Al contrario, la produzione altamente meccanizzata, ad esempio in Sudamerica, impiega un lavoratore su circa 100 ettari, mentre la produzione semi-meccanizzata in India impiega un lavoratore su circa 7 ettari». Il più delle volte, insomma, le promesse occupazionali e di reddito non vengono mantenute, impoverendo così le popolazioni.
Ed è per questo che a trarre benefici significativi dagli LSLA transnazionali sono soprattutto alcuni paesi meno densamente popolati. Ad esempio Repubblica Democratica del Congo, Gabon, Laos, Namibia e Papua Nuova Guinea. Ed è giusto ricordare che, almeno sul fronte del lavoro, Land Matrix “salva” la coltura dell’olio di palma. Senza grandi impatti negativi per le attività preesistenti, offre un buon contributo al reddito grazie all’alta intensità di manodopera richiesta. Elemento comune alla coltivazione di gomma e canna da zucchero.
Terra dimenticata e paradisi fiscali, un altro lato oscuro
Se però non bastasse quanto detto sopra a decretare una valutazione genericamente critica dell’applicazione diffusa di acquisizioni su larga scala di territorio, altri tre aspetti poco battuti vanno registrati.
Il primo riguarda la resa effettiva in termini di produzione di cibo e materie prime. Si scopre infatti che tra 9 e 22 milioni di ettari, dei circa 30 milioni oggetto di transazioni nel ventennio trascorso, sono ancora inutilizzati per la produzione. Ciò in regioni del mondo come l’Africa subsahariana, l’Asia-Pacifico, Europa e Asia centrale. I motivi possono essere i più diversi, ma questa situazione amplifica i mancati vantaggi per l’economia locale e la frustrazione per gli impatti negativi di tali operazioni fondiarie. Un po’ come fa rabbia (e favorisce fenomeni speculativi) la quantità di case lasciate sfitte nelle grandi città, dove mancano abitazioni disponibili a prezzi accessibili .
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Infine ci sono le ricadute in termini di giustizia fiscale da evidenziare. Da un lato le LSLA portano entrate fiscali scarse o nulle (se escludiamo la vendita una tantum di concessioni), perché le aziende coinvolte sono spesso esentate da dazi doganali e accise, quando non ricevono sussidi. E poi large-scale land acquisition e opacità vanno spesso a braccetto. Il rapporto sottolinea infatti che molti investitori protagonisti del settore operano attraverso centri d’investimento, molti dei quali paradisi fiscali. «Questo spiega perché tra tra le prime 10 nazionalità degli investitori ci siano Paesi come Cipro (al quarto posto), Singapore (settimo posto), le Isole Vergini britanniche (ottavo posto) e Hong Kong (nono posto)».