Addio al petrolio, il mezzo dietrofront del fondo sovrano norvegese

Eccezioni e deroghe nella strategia di addio alle fonti fossili del fondo sovrano di Oslo. Operazione ridotta da 7,8 a 5,7 miliardi di dollari

Una petroliera nella città costiera di Bergen, in Norvegia © Petr Šmerkl/Wikimedia Commons

Era il mese di novembre del 2017 quando il fondo sovrano norvegese annunciò ciò che fino a pochi anni prima appariva impensabile. Il braccio finanziario del governo scandinavo spiegò di voler abbandonare gli investimenti nel petrolio. Nonostante proprio quest’ultimo ne abbia per decenni alimentato le casse.

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Quello del fondo sovrano della Norvegia è un addio soltanto parziale agli investimenti nel settore petrolifero © Brataffe/Wikimedia Commons

A marzo il via libera del Parlamento norvegese

Il governo di Olso ha impiegato quindi quasi due anni prima di fornire il proprio parere sulla questione. Nel marzo scorso il ministro delle Finanze Siv Jensen ha tuttavia confermato la strategia, annunciando un disinvestimento progressivo.

Il ministro delle Finanze norvegeseYossi Cadan, responsabile della campagna Disinvestimenti dell’organizzazione non governativa 350.org, aveva commentato la decisione definendola «un’allerta rossa per le banche e gli investitori. I cui asset legati a gas e petrolio stanno diventando sempre più rischiosi e moralmente inaccettabili». La “svolta” del fondo sovrano della Norvegia è stata dettata, in effetti, dalla volontà di svincolarsi dalle oscillazioni del mercato del petrolio.

A giugno, poi, il parlamento di Oslo ha dato il proprio via libera alla strategia. In particolare, sono state approvate due proposte positive per il clima: la prima punta a uscire progressivamente dal capitale delle imprese produttrici ed esportatrici di petrolio e gas. Escludendo così 134 compagnie e asset per circa 7 miliardi di euro. Si è deciso tuttavia di rimanere nel capitale della Equinor (ex Statoil), la compagnia petrolifera di Stato.

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Il totale degli asset che saranno disinvestiti è inferiore alla partecipazione del fondo sovrano nel capitale di Shell © Norsk olje og gass/Wikimedia Commons

Le esclusioni limitate ai «petrolieri puri»

La seconda proposta riguarda invece il carbone. L’uscita dal finanziamento di tale fonte fossile era già stata avviata nel 2015, ma si è deciso di renderla più incisiva. Finora, infatti, le esclusioni hanno riguardato le compagnie minerarie o produttrici di energia per le quali il carbone rappresenta più del 30% delle attività complessive. Una formula facilmente aggirabile. Per questo, ora le imprese vietate per il fondo sovrano sono, più semplicemente, tutte quelle che estraggono più di 20 milioni di tonnellate di carbone all’anno. O che producono più di 10mila MW di energia elettrica grazie a tale fonte.

Sul petrolio però, nonostante le ambizioni annunciate, si era scelta una strategia piuttosto anodina. Ad essere colpite erano infatti solo le imprese specializzate unicamente nello sfruttamento del petrolio. Colossi come Shell e Total, dal momento che hanno interessi e business diversificati, erano salvi. Ciò nonostante, la manovra avrebbe dovuto riguardare comunque più di 7,8 miliardi di dollari di asset sul mercato.

La battaglia politica attorno al fondo sovrano

Comunque troppo, secondo alcuni partiti politici norvegesi che si sono battuti per conservare il business as usual del fondo sovrano. Con successo, almeno in parte. Secondo quanto riferito dall’agenzia Bloomberg, infatti, il governo ha deciso di abbassare ulteriormente l’asticella. Alla fine, l’esclusione riguarderà soltanto i puri produttori di petrolio e salverà le imprese integrate, le società di servizi, i raffinatori e i petrolchimici.

L’agenzia di stampa calcola che ciò farà scendere il valore degli asset interessati a 5,7 miliardi di dollari. Meno della partecipazione che il fondo sovrano detiene nel capitale di Shell, pari a 5,9 miliardi. E una piccolissima parte di 1.100 miliardi di dollari di asset gestiti.