Gli allevamenti intensivi sono un problema ecologico, sanitario e sociale
Nessuno vuole sapere davvero cosa accade a quello che arriva nei nostri piatti, prima che ci arrivi. Ma gli allevamenti intensivi sono un problema
Gli allevamenti intensivi fanno male alle persone, agli animali e all’ambiente: nessuna transizione ecologica può essere efficace se non se ne abolisce l’esistenza. Questa non è una teoria, una posizione ecologica, né ideologica: ci sono studi, dati, evidenze scientifiche che lo dimostrano. Per questo un gruppo di associazioni, da un anno, chiede una legge che ci faccia superare, come paese, questa pratica barbara.
Sotto accusa gli impatti ambientali taciuti o sottovalutati. Le emissioni di ammoniaca, innanzitutto: dal sistema zootecnico ne derivano più di due terzi. L’ammoniaca è componente essenziale delle polveri sottili, che hanno un impatto diretto e devastante sulla salute umana. Con quasi 50mila morti premature nel 2021, l’Italia è il secondo Paese in Europa dopo la Polonia per numero di decessi legati all’esposizione a PM2,5. Ma ci sono anche gli impatti climatici: Il 79% delle emissioni di gas serra e il 40% di quelle di metano generate dal sistema agricolo è legato agli allevamenti di animali destinati al consumo umano.
E poi c’è l’enorme spreco di risorse: in Unione europea ogni anno gli animali che alleviamo mangiano due terzi dei cereali commercializzati, si nutrono sul 70% dei terreni agricoli.
In generale il comparto zootecnico riflette grandi iniquità: le piccole aziende sono penalizzate, mentre le più grandi beneficiano di quasi tutti i fondi. Tra il 2004 e il 2016 Eurostat ha registrato la chiusura di più di 320mila aziende in Italia. Ha chiuso il 38% delle più piccole, il 23% delle grandi e il 21% di quelle molto grandi. Di tutti i fondi che l’Unione Europea destina ogni anno all’agricoltura, la quasi totalità (80%) finisce nelle casse del 20% delle imprese.
Abolire gli allevamenti intensivi per una transizione ecologica ed equa della zootecnia
L’avanzamento rapido della crisi climatica richiede politiche ambiziose. Ne sono convinti i rappresentanti di Greenpeace, ISDE-Medici per l’ambiente, Lipu, Terra! e WWF che, da febbraio 2024, hanno elaborato la proposta di legge.
L’obiettivo è una transizione realmente ecologica ed equa del settore zootecnico: cibo sano e di qualità per i consumatori; giusto prezzo per il lavoro dei piccoli produttori, schiacciati dalla concorrenza dei giganti. La svolta avrebbe impatti positivi sulla salute, visto che è ormai riconosciuta la necessità di diminuire il consumo di proteine di origine animale, mentre in Italia il consumo di carne è superiore a quello consigliato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità. Nulla di tutto questo è possibile fino a che il mercato – e le abitudini alimentari e di consumo – saranno dominati da grandi e grandissime imprese.
Nessuna battaglia ideologica, dunque. Il punto non è il consumo di carne tout court ma un sistema che ne produce molta di più di quanta ne servirebbe, generando impatti ambientali, sanitari e sociali.
Come se ne esce? Con un piano: un intervento statale che destini risorse alla riconversione degli allevamenti intensivi in chiave agro-ecologica. La proposta, presentata lo scorso febbraio e depositata alla Camera dei Deputati a marzo, ora è al vaglio degli uffici legislativi della Camera. Secondo i promotori è il momento di calendarizzare la discussione in Parlamento e arrivare al voto.
Gli obiettivi della proposta di legge
Tutelare la salute pubblica, a partire dalle zone che oggi sono più esposte, come la Pianura Padana. Salvaguardare risorse naturali e sicurezza alimentare, anche per le future generazioni. Rispettare gli impegni internazionali che abbiamo assunto su clima, biodiversità e inquinamento. Proteggere i piccoli allevatori virtuosi e garantire ai grandi le risorse per una transizione reale, non di facciata. E di cui non paghino le spese lavoratrici, lavoratori e animali. L’impianto su cui è costruita la proposta di legge è sempre lo stesso: per una reale transizione la formula magica è piccolo, vicino, virtuoso.
Certo, non è un cambiamento che può avvenire domani, anche se avremmo bisogno ci fosse stato ieri. Serve un piano: soldi, tempi, tappe graduali. Serve una moratoria sull’apertura di nuovi allevamenti e sull’aumento del numero di animali in quelli già esistenti. Le grandi aziende devono ricevere fondi e formazione per adottare pratiche sostenibili.
L’obiettivo finale deve essere eliminare l’assurda competizione tra gli alimenti per le persone e quelli per gli animali di cui le persone dovranno nutrirsi. E il miglioramento del modo in cui ci alimentiamo, ancorato a un consumo ossessivo di carne e proteine animali che no, non devono essere aboliti o vietati, ma riconsiderati globalmente e ridotti.
Gli allevamenti intensivi sono semplicemente un sistema che non funziona
Mentre la maggior parte di noi ha imparato a viaggiare portando con sé una borraccia, a non dare fuoco ai propri rifiuti ma gettarli secondo attenta selezione in cassonetti di colori diversi e a spegnere le ciabatte cui sono attaccati i nostri apparecchi elettronici, il consumo eccessivo di proteine animali è un’abitudine dura a morire. Accade principalmente perché qualcuno ci guadagna. Fino a che i grandi allevamenti intensivi avranno ragione di esistere, fino a che la produzione di carni e prodotti derivati dagli animali inonderanno i nostri mercati, ci sarà sempre chi ne farà un uso eccessivo. A danno della propria salute, delle condizioni economiche dei piccoli produttori, e del Pianeta.
Eppure basterebbe guardare a cosa producono realmente per richiamare all’ordine i nostri rappresentanti politici e chiedere loro di intervenire. Ci sono le emissioni di ammoniaca, ci sono le polveri sottili che ogni anno generano decine di migliaia di morti. C’è l’azoto e i nitrati che ne derivano, che contaminano i suoli e le acque. Ci sono i virus e le epidemie che si propongono ciclicamente, conseguenze dello stipare tanti animali geneticamente simili, negli stessi spazi ristretti.
Per nutrire tutti gli animali che alleviamo affinché divengano cibo (in Italia sono più di 600mila all’anno) non basta tutto il cibo che produciamo nei nostri Paesi. Importiamo il 60% dei cereali e delle farine proteiche da Paesi extra Ue, con enormi impatti ambientali, distruzione di foreste primarie e utilizzo, spesso incondizionato, di pesticidi, come avviene in Argentina e Brasile.
È un sistema che non funziona, ciclicamente in crisi perché basato su presupposti sbagliati. Dipende in maniera irrimediabile da un consumo di risorse (energia, mangimi, acqua) che già da tempo non possiamo più permetterci. La sua sopravvivenza economica è legata a costanti aiuti pubblici, nazionali o europei.
E se usassimo quei soldi, quelle risorse, per uscirne definitivamente?