Il salmone da allevamento distrugge oceani, comunità e diritti

Le conseguenze dell'allevamento di salmone sono note in tutto il mondo, ma la finanza continua a incentivare la crescita del settore

Il salmone da allevamento consumato in tutto il mondo ha superato quello selvatico ©Fudio/iStockPhoto

È il simbolo del nuotare controcorrente, ma anche un ingrediente centrale in molte diete proteiche: il salmone è un pesce grasso ricco di vitamine, omega-3 e sali minerali. Contiene fosforo e selenio, che fanno bene a ossa e denti e hanno funzione antiossidante per le nostre cellule. Ed è anche molto gustoso. Il suo consumo negli ultimi anni è cresciuto in tutto il mondo. Ma l’allevamento industriale di salmone è un’attività altamente dannosa, che colpisce la sicurezza alimentare di intere popolazioni, la salute e l’ambiente. Oltre che mettere a rischio la specie stessa.

Come per molti alimenti, il mercato è stato dopato da una elevata produzione legata alle pratiche di allevamento intensivo. Un’attività altamente estrattiva, inquinante, ingiusta e inefficiente, perché gran parte della materia prima con cui vengono nutriti i salmoni è molto più nutriente degli esemplari in sé. Nonostante questo, il settore continua a crescere, grazie a decine di miliardi di investimenti che la finanza, pubblica e privata, vi destina.

Allevamento di salmone: un’industria in rapida espansione

In tutto il mondo il pesce proveniente da allevamenti supera di gran lunga, nel consumo umano, quello pescato negli oceani. Se guardiamo agli ultimi decenni, vediamo una crescita esponenziale dell’acquacoltura. Nel 2022 l’intero settore valeva più di 312 miliardi di dollari. L’allevamento industriale di salmone è il settore più redditizio.

Una parte molto consistente dell’acquacoltura è l’allevamento di specie che richiedono l’uso di mangimi (acquacoltura alimentata), come il salmone atlantico. Per rendere l’idea della dimensione del fenomeno, basti pensare che un quinto di quanto catturato in mare ogni anno serve alla produzione di mangimi. Di questi ultimi, la maggior parte viene usata per l’allevamento di altri pesci. Nel 2021, il 74%. Nel 2022, per esempio, 17 milioni di tonnellate di sardine, acciughe e aringhe, sono state usate per la produzione di farina di pesce e olio di pesce (FMFO), con cui vengono nutriti i pesci di allevamento. Per la sua produzione si utilizza anche il krill, un piccolo crostaceo abbondante in tutti gli oceani ma soprattutto in Antartide, dove ha un ruolo chiave nell’ecosistema. E dove è fortemente a rischio per i cambiamenti climatici (vive in acque gelate) e per la pesca intensiva, visto che è viene usato per le farine che nutrono i salmoni d’allevamento.

Pesce d’allevamento e sottoprodotti: un greenwashing blu

Visto che le popolazioni di pesce selvatico sono in diminuzione, l’industria assicura di star aumentando l’utilizzo di sottoprodotti. La tesi del settore è che questa pratica contribuirà ad alleggerire la pressione sugli oceani, ma i dati dicono altro. Se l’acquacoltura non frenerà la sua crescita aggressiva, tra il 2022 e il 2032 la produzione di farina di pesce crescerà del 9% e quella di olio del 12. La percentuale di farina ottenuta da sottoprodotti, però, aumenterà solo del 3%. Quella di olio resterà la stessa degli attuali ritmi. Si tratta, in altre parole, di un espediente di green(blue?)washing per giustificare la crescita di un settore insostenibile.

Perché l’allevamento intensivo di salmone è insostenibile

Il salmone è un pesce carnivoro: è molto in alto nella catena alimentare, a differenza di molte specie terrestri di allevamento. Per la produzione di un solo chilo di salmone, ne servono fino a sei di pesce selvatico (trasformato in FMFO). Di cui poi il salmone trattiene solo una percentuale minima della gran quantità di nutrienti. Questo rende il suo allevamento intrinsecamente insostenibile, visto che aggrava la situazione di pressione sugli ecosistemi oceanici.

La crescita degli allevamenti, inoltre, è stata proporzionale alla diminuzione delle popolazioni selvatiche. Nel Regno Unito sono già materialmente in pericolo, mentre a livello globale sono seriamente minacciate. Questo perché l’allevamento favorisce la diffusione di specie invasive come i pidocchi di mare, o perché l’incrocio tra esemplari selvatici e allevati indebolisce la genetica delle popolazioni. Senza considerare gli enormi impatti degli allevamenti a reti aperte, che rilasciano in mare plastiche, sostanze chimiche, feci di pesce, scarti di cibo e antibiotici. In soli due anni, in Scozia, gli impianti di allevamento di salmone hanno violato le norme ambientali più di cento volte. In generale, il loro inquinamento è stato superiore a quello dell’industria dei metalli, degli imballaggi e delle discariche.

Allevamenti di salmone: impatti ambientali e sociali globali

La pratica si sta diffondendo in tutto il mondo nonostante stia crescendo anche la consapevolezza sui suoi impatti ambientali e socioeconomici. Dal Sud America al Sud Africa, passando per il Sud Est asiatico, sono sempre di più le comunità che denunciano le conseguenze devastanti dell’allevamento di salmone. Anche scienziati e, talvolta, investitori si sono uniti al coro di denunce.

Eppure l’industria è cresciuta del 600% tra il 1990 e il 2020. Anche grazie al supporto di banche e investitori privati, governi e fondi pensione che, nell’ultimo decennio, l’hanno supportata con decine di miliardi di dollari. Gli effetti sono sempre più chiari: le multinazionali del settore continuano a crescere, spesso col sostegno pubblico. Aumentano i profitti degli investitori, in gran parte privati. E crescono danni ambientali e insicurezza alimentare delle popolazioni. L’impatto sulle disuguaglianze globali è tale che il settore sta generando un nuovo tipo di colonialismo alimentare.

Africa Occidentale: come l’industria del salmone genera disuguaglianze

La pesca per la produzione di farina e olio è detta anche “pesca di riduzione”. Quest’ultima prende di mira le popolazioni di pesce pelagico, il pesce che vive lontano dal fondo del mare, legando la sua vita ai destini di correnti e onde. Come le alacce, una fonte di proteine essenziale per la sicurezza alimentare in Africa occidentale, che garantisce il sostentamento tanto delle comunità costiere quanto di quelle interne. Le proprietà della specie, però, la rendono ideale per la produzione di ottimo olio di pesce. Al punto che la popolazione, un tempo abbondante, oggi è a rischio.

In gran parte dei casi le aziende norvegesi comprano tonnellate di olio di pesce ottenuto dalla pesca nell’area. Nel solo 2020 la quantità acquistata è stata prodotta con tanto pesce che sarebbe bastato a rispondere al fabbisogno alimentare di un numero di persone tra i 2,5 e i 4 milioni per un intero anno. Ma ci sono altre conseguenze a cascata. L’azione industriale sta danneggiando i piccoli pescatori e i pescivendoli locali. La predazione delle specie selvatiche locali sta facendo aumentare i prezzi per le comunità: nel 2023 l’alaccia è passata dall’equivalente di 25 centesimi a 1,50 euro al chilogrammo. Il peggioramento delle condizioni sta spingendo alla migrazione dei pescatori, che si spostano tra Stati costieri. Il fenomeno accresce le tensioni locali e sta acuendo il conflitto tra Mauritania e Senegal.

L’allevamento industriale di salmone incide anche sulle disuguaglianze di genere. Il pesce utilizzato per la produzione di FMFO è ricco di sostanze nutritive importanti come ferro, zinco e calcio. E viene negato alla popolazione locale, in un’area in cui più della metà delle donne soffre di anemia. Sono proprio le donne, inoltre, quelle che nella maggior parte dei casi lavorano e vendono il pesce. La scarsità del prodotto le sta spingendo ad abbandonare l’attività.

America Latina: l’impatto del salmone su ambiente e diritti

Le acciughe peruviane sono la principale fonte globale di FMFO. E sono fortemente in pericolo. Le ragioni si intrecciano agli effetti della crisi climatica. Gli effetti di El Niño hanno già fatto saltare la stagione di pesca del 2023, l’azione dei giganti dell’acquacoltura potrebbe fare il resto. Secondo le previsioni più ottimiste, entro la metà di questo secolo la riduzione complessiva della loro biomassa sarà del 14%. Le specie crolleranno poi di lì a poco e potrebbero vedere una ripresa solo a partire dalla fine del secolo. Se però non dovesse andare tutto bene, e la temperatura media del Pianeta dovesse salire fuori misura, ogni dieci anni si potrebbe perdere più del 20% delle popolazioni, e l’estinzione potrebbe arrivare entro il 2060.

In Cile il salmone non era una specie autoctona, è arrivato negli anni ’80 per volontà politica della giunta Pinochet. Il generale puntava a far crescere l’economia del Paese e incentivò gli investimenti stranieri in diversi settori. Per questo, lunghi tratti di litorale vennero concessi all’utilizzo industriale di giganti esteri, che avevano licenza di pesca incondizionata delle specie autoctone, per trasformarle poi in mangimi utili a nutrire il salmone allevato. Oggi il Cile è un grande esportatore di salmone, secondo al mondo solo alla Norvegia. I lavoratori impiegati però non guadagnano più di poche centinaia di euro al mese. Le salmoneras sono impianti pericolosi, in cui ogni anno muoiono in centinaia per le condizioni di lavoro e dove non c’è la possibilità di interrompere la produzione nemmeno durante le allerte tsunami.

Una parte importante dei siti di produzione si trova in Patagonia, una delle aree più ricche di Parchi naturali protetti del mondo. Tutte le rimostranze e le proteste vengono punite: gli attivisti vivono sotto minaccia di morte.

La responsabilità della finanza

Visti gli impatti devastanti dell’allevamento industriale di salmone, in diversi Paesi si stanno diffondendo restrizioni. L’obiettivo di molti governi è ridimensionare i piani di espansione delle industrie. Il problema è che, mentre si nega loro agibilità con una mano, con l’altra si concedono enormi finanziamenti. Lo fanno banche e gestori patrimoniali multinazionali ma anche fondi pensione statali e governi.

Tra il 2015 e il 2024 le principali aziende di allevamento di salmone hanno ricevuto da questi ultimi crediti o investimenti per decine di miliardi di dollari. Nello stesso periodo la produzione globale di salmone d’allevamento è cresciuta di un terzo, molto di più di quanto sia accaduto, per esempio, nel settore della carne.

Chi investe nel settore

Gli istituti finanziari hanno prestato circa 18,8 miliardi di dollari alle imprese del settore. La top five è tutta europea. Con 4 miliardi e mezzo di dollari, il principale creditore globale è il gestore di servizi finanziari finlandese Nordea. Al secondo posto ci sono i norvegesi di DNB che hanno prestato, in un decennio, 4,3 miliardi di dollari. Seguono gli olandesi di Danske Bank con 2,6 miliardi, Rabobank con 1,8 miliardi e ABN Amro (1,3 miliardi di dollari).

Gli investimenti diretti sono stati 12 miliardi. In questo caso si esce dall’Europa, anche se il primo al mondo è il Fondo Pensione Governativo Norvegese, che a novembre 2024 aveva elargito 1,7 miliardi di dollari. La cifra è superiore a quanto vale, complessivamente, l’intera industria del salmone scozzese. Si affacciano poi BlackRock (0,8 miliardi), Storebrand e Vanguard (0,6 entrambi) e, di nuovo, Nordea con mezzo miliardo di dollari. Anche l’Unione europea è della partita, con un investimento di circa un milione di euro e un progetto da un milione e mezzo del gigante norvegese Lerøy finanziato dal Fondo europeo per gli affari marittimi e la pesca (FEAMP).

Non mancano le banche sostenibili. Come Triodos, la banca etica con sede nei Paesi Bassi e che opera in Belgio, Germania, Regno Unito e Spagna. Tra il 2015 e il 2024 ha investito circa 16 milioni di dollari in Bakkafrost.

Chi riceve

Il dominio incontrastato della Norvegia nel settore vede le sue società operare ormai in diversi continenti. Almeno 50 delle 400 persone più ricche dello Stato hanno a che fare con l’allevamento di salmone. Due di loro sono miliardarie: John Fredriksen, il maggiore azionista di Mowi, e Gustav Witzøe, fondatore di SalMar. E che sono le prime due multinazionali al mondo a beneficiare di più finanziamenti. Mowi, il più grande produttore al mondo, ha incassato quasi un terzo dei crediti (7 miliardi) e la metà degli investimenti (7 miliardi). Finanziamenti che hanno permesso all’azienda di aumentare notevolmente i volumi di produzione, passati da 420mila tonnellate a 502mila, e a raddoppiare quella di mangimi.

L’azienda è cresciuta anche grazie a finanziamenti pubblici da parte del governo britannico. Attraverso l’UK Seafood Fund, Downing Street ha infatti erogato alla multinazionale circa 7 milioni di sterline tra il 2022 e il 2023. Dopo le due norvegesi, al terzo posto per quantità di finanziamenti ricevuti troviamo Bakkafrost, che opera in Scozia e nelle Isole Faroe, isola con governo autonomo, ma parte del Regno di Danimarca. Bakkafrost ha beneficiato di enormi finanziamenti pubblici, in particolare dal Marine Fund Scotland che, complessivamente, nel 2021 ha distribuito quasi cinque milioni di sterline a Bakkafrost, Scottish Salmon Company, Mowi e Cooke Aquaculture.

La campagna Our Fish, Notre Poisson

La campagna Our Fish, Notre Poisson è un progetto che tiene insieme partner europei e dell’Africa occidentale. La richiesta principale di attiviste e attivisti, e delle organizzazioni della società civile che la animano, è che si ponga fine all’utilizzo di pesce adatto al consumo umano, soprattutto in Africa occidentale, dove le popolazioni locali sono schiacciate dall’insicurezza alimentare.

La campagna agisce sensibilizzando a livello globale sugli impatti della produzione di pesce d’allevamento, e dando voce alle comunità costiere. In particolare raccoglie testimonianze in Senegal, Mauritania e Gambia, facendo pressione sulle aziende produttrici. Partner della campagna sono: Rete Regionale delle Aree Marine Protette dell’Africa Occidentale (RAMPAO), Greenpeace Africa, l’Associazione dell’Africa Occidentale per lo Sviluppo della Pesca Artigianale (WADAF), la Commissione Sub-Regionale per la Pesca (SRFC), l’Università di Lancaster e diverse organizzazioni di rappresentanza delle comunità costiere.

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