Indice globale della fame. L’obiettivo “fame zero” è lontanissimo

In nove Stati la fame è allarmante, in altri 34 è grave. Lo dimostra l'Indice globale della fame 2023, presentato da CESVI

CESVI è presente da anni in Kenya © Roger Lo Guarro / CESVI

È il 25 settembre 2015 e un fragoroso applauso risuona all’Assemblea generale delle Nazioni Unite a New York. I 193 Paesi membri hanno siglato l’Agenda 2030, articolata in 17 Obiettivi di sviluppo sostenibile. Il secondo prevede di sconfiggere la fame, ovunque, entro il 2030. A metà percorso, nel 2022, le persone che soffrono la fame sono 735 milioni. Considerando quelle che non si possono permettere una dieta adeguatamente ricca, si arriva a 3,1 miliardi. Tutto questo, su una popolazione globale di otto miliardi di persone. In nove Stati la fame è allarmante e in altri 34 è grave.

Andando avanti di questo passo, nel 2030 saranno ancora 58 i Paesi in cui la fame è almeno moderata o, ancora peggio, grave o allarmante. Sono soltanto alcuni dei dati dell’Indice globale della fame (GHI) 2023, presentato a Milano mercoledì 29 novembre dall’organizzazione umanitaria CESVI.

Come funziona l’Indice globale della fame (GHI)

Un punteggio che va da zero (la migliore situazione possibile) a 100 (una catastrofe). Dove un valore inferiore a 10 è da considerarsi basso e uno superiore a 35 allarmante, diventando estremamente allarmante se è più alto di 50. Funziona così, in estrema sintesi, l’Indice globale della fame (GHI), un report realizzato a livello internazionale da Welthungerhilfe e Concern Wordlwide e curato per l’Italia da CESVI.

A questo valore numerico si arriva combinando quattro parametri diversi: denutrizione, deperimento infantile, arresto della crescita e tasso di mortalità infantile. Per ciascuno di essi i ricercatori attingono ai dati ufficiali della Banca mondiale, delle varie agenzie delle Nazioni Unite e dei programmi di statistica. L’edizione 2023 dell’Indice globale della fame prende in considerazione 136 Paesi. Per undici di essi però i dati non erano sufficienti; una lacuna che i ricercatori hanno parzialmente colmato attraverso classificazioni provvisorie.

Indice globale della fame
Com’è composto l’Indice globale della fame (GHI) © CESVI

I progressi nella lotta contro la fame si sono arenati

Facendo una media dei 136 Paesi analizzati, risulta un punteggio di GHI pari a 18,3. Quindi moderato. Ma si tratta appunto di una media, perché in 50 Stati la fame è a un livello basso (con un punteggio inferiore a 10), mentre nell’Africa subsahariana e nell’Asia meridionale il GHI è pari a 27 (ed è dunque grave).

A leggere questi numeri, viene quasi da pensare che la lotta contro la fame fosse fin da subito un sogno irrealizzabile. Una corsa destinata a schiantarsi alla prima curva. In realtà, i progressi per quindici anni ci sono stati. Nel 2000 il punteggio globale di GHI era pari a 28; nel 2015 era sceso a 19,1, passando quindi da grave a moderato. A quel punto, però, i passi avanti sono diventati sempre più lenti e incerti. Per certi parametri, il quadro è addirittura peggiorato: è il caso appunto della denutrizione, che riguardava 571 milioni di persone nel 2015 e 735 milioni nel 2021.

«La sovrapposizione delle crisi sta intensificando le diseguaglianze sociali ed economiche, vanificando i progressi sulla fame, mentre il peso più grave è sui gruppi più vulnerabili, come donne e giovani», sottolinea Gloria Zavatta, presidente di Fondazione CESVI.

Punteggi di GHI
I punteggi globali e regionali di GHI © Cesvi

Conflitti, crisi climatica, pandemia, prezzi: le cause della fame

CESVI parla apertamente di policrisi, perché i cambiamenti climatici, i conflitti, le crisi economiche, la pandemia e l’impennata dei prezzi si intrecciano e si inaspriscono a vicenda. Per calare questa considerazione nel concreto, basta leggere gli approfondimenti su quei territori in cui la situazione è drammatica.

Come il Madagascar, dove il 51% della popolazione è denutrito, il 39,8% dei bambini subisce un arresto della crescita e il tasso di mortalità al di sotto dei cinque anni è pari al 6,6% (in Italia, per avere un termine di paragone, è al 3,6 per mille). Dati atroci che diventano più comprensibili se si considera che il Madagascar – scrive il Programma Alimentare Mondiale – è «uno dei dieci paesi al mondo più vulnerabili ai disastri e il più esposto ai cicloni in Africa». Dopo quattro anni consecutivi di siccità ci sono famiglie che, pur di sfamarsi, mangiano locuste, fichi d’India selvatici o foglie. Pur non essendoci i criteri per poter parlare a pieno titolo di carestia, è l’unico caso al mondo in cui un’emergenza del genere è dovuta alla crisi climatica, non ai conflitti.

In Niger invece il tasso di denutrizione della popolazione è più basso, con il 16,5%, ma i dati allarmanti sono quelli che riguardano i bambini al di sotto dei 5 anni. A partire dal tasso di mortalità infantile, il più alto in assoluto a quota 11,5%. «Negli ultimi anni i bambini nigerini hanno sofferto a causa degli sfollamenti interni provocati dai conflitti e dell’afflusso di rifugiati dai Paesi vicini, oltre che della crisi climatica e dell’aumento dei prezzi dei generi alimentari», scrivono gli autori dell’Indice globale della fame.

Le responsabilità di pochi ricadono sui più vulnerabili

Ricapitolando, la policrisi ha cancellato con un colpo di spugna anni di progressi. «E il futuro lascia presagire un’incessante ondata di nuovi shock a cui l’umanità non è preparata. Alla base di queste desolanti previsioni c’è l’accelerazione del cambiamento climatico, che probabilmente genererà crisi legate al clima non solo in forma diretta, come siccità, inondazioni, tempeste estreme e caldo, ma anche in forma indiretta, come pandemie, conflitti e sfollamenti», si legge nell’Indice globale della fame 2023.

Ed è bene ricordare che queste crisi hanno dei responsabili ben precisi. Sappiamo per esempio che il riscaldamento globale corre a questo ritmo perché, dal 1850 in poi, gli esseri umani hanno emesso nell’atmosfera circa 2.500 gigatonnellate di CO2. E gli artefici sono innanzitutto Stati Uniti (con il 20% circa del totale) e Cina (con un altro 11%): non certo Madagascar e Niger.

Così come sappiamo che quest’ennesima impennata dei prezzi alimentari – la terza nell’arco di un decennio – non è dovuta alla mancanza di cibo in sé, bensì a decisioni di pochi. Per esempio, l’invasione russa dell’Ucraina. Oppure la speculazione finanziaria sulle materie prime (commodities).  

Come si specula sul cibo

speculazione sui prezzi alimentari

Gli speculatori della fame

L’instabilità dei prezzi alimentari ha portato un aumento impressionante della speculazione. Che genera, a sua volta, altra instabilità

L’appello di CESVI: dare voce ai giovani

Questa edizione dell’Indice globale della fame è dedicata ai giovani, che hanno ereditato questi sistemi alimentari profondamente iniqui e insostenibili senza nemmeno che venisse concessa loro voce in capitolo. Oggi, un giovane ha il doppio delle probabilità di un adulto di vivere sotto la soglia della povertà estrema (fissata in 1,90 dollari al giorno). E va ancora peggio alle giovani donne che si sobbarcano il lavoro di assistenza non retribuito, privandosi così di tempo ed energie da dedicare alla formazione e alla crescita professionale.

Le raccomandazioni strategiche conclusive si focalizzano proprio su questo. Oggi il 42% della popolazione mondiale ha meno di 25 anni. Conteggiando adolescenti e giovani adulti si arriva a 1,2 miliardi di persone, un numero che nella storia non era mai stato così alto. Queste persone hanno «un interesse legittimo a plasmare il loro futuro, ed è necessario prestare attenzione alle loro voci». Se ci sarà – com’è auspicabile – un cambiamento di rotta, è da loro che dovrà partire.