Amazzonia, il successo della moratoria anti-incendi e le fake news di Bolsonaro
Lo strumento delle "areas embargadas" ha consentito di ridurre gli incendi e non ha ostacolato le produzioni agricole. Eppure il presidente brasiliano la detesta
C’è un aspetto poco raccontato dai media eppure cruciale da conoscere nella vicenda degli incendi che hanno devastato l’Amazzonia nelle settimane scorse. E che rende quelle fiamme ancora più intollerabili. Negli anni scorsi infatti, il trend della deforestazione era in deciso declino: dopo i picchi del 1995 e del triennio 2003-2005, si era registrato nel 2012 il minimo storico, rimanendo poi piuttosto stabile negli anni successivi. Il vento ora è cambiato. Perché?
Approfondimento
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La vera escalation degli ultimi mesi è stata agevolata, se non proprio ispirata, dal nuovo corso politico del presidente Jair Bolsonaro. Una svolta gradita dagli interessi dei gruppi economici della grande proprietà terriera che hanno sostenuto l’ascesa del presidente.
Fuoco dall’Amazzonia al Cerrado
Se infatti Bunge, Cargill, JBS e le altre corporation sono attori fondamentali delle filiere della carne (di cui il Brasile è leader nell’esportazione) e della soia (di cui il Brasile è il secondo produttore al mondo), che guadagnano dallo sfruttamento della terra, sul campo sono centinaia di piccoli e grandi agricoltori e allevatori ad accendere il fuoco.
L’effetto sono le nubi nere che oscurano il cielo di intere città, l’emissione di tonnellate di CO2 e una devastazione che colpisce la foresta amazzonica (disboscata per un 20% della sua estensione originaria), ma non solo. Stando ai rapporti dell’organizzazione ambientalista locale Mighty Earth la deforestazione è già avanzata per più della metà della grande savana del Cerrado.
La moratoria e le areas embargadas: freno per fiamme non per la crescita
Ma perché il disboscamento si è accanito sul Cerrado più che sulla foresta amazzonica? Per un motivo molto semplice: il Cerrado non ha beneficiato della moratoria che in Brasile garantisce accesso al mercato solo per la soia coltivata nei territori esclusi dalla deforestazione illegale.
La moratoria era nata sotto la presidenza di Lula ed è stata resa definitiva nel 2016 dopo 10 anni di rinnovi annuali. La misura ha avuto innegabili effetti benefici sui territori coinvolti: ha saputo ridurre dal 30% all’1% i quantitativi della leguminosa proveniente da zone disboscate. Tanto che Greenpeace, proprio nel 2016, constatava come la produzione di soia in Brasile si fosse incrementata del 260% in un decennio, coinvolgendo però solo l’1% di nuove aree deforestate. Una prova che salvaguardare gli habitat senza danneggiare l’industria è assolutamente possibile.
Un bel risultato, garantito anche dall’istituzione, nel 2008, di un registro pubblico delle cosiddette “areas embargadas” gestito dall’agenzia ambientale IBAMA.
Il registro è uno strumento rivolto agli istituti finanziari, perché possano verificare se i beneficiari di credito presentino irregolarità sulle transazioni da e per soggetti o commesse responsabili di deforestazione. Ed è utile anche per gli operatori di mercato, per sapere se le merci scambiate provengono o meno da un’area deforestata illegalmente. Grazie a questo strumento, peraltro, il controllore IBAMA può perseguire chiunque acquisisca, finanzi, trasporti o commerci prodotti provenienti dalle aree messe al bando perché disboscate illegalmente. E può portare all’esclusione dal mercato di chi è coinvolto, prevedendo sanzioni economiche e il carcere da 1 a 3 anni.
La propaganda di Bolsonaro smentita dai fatti
La moratoria, quindi, pur avendo avuto come contraltare l’accelerazione dei roghi e delle pratiche di land grabbing nelle regioni meno protette (dal bacino dell’Amazzonia boliviana al Cerrado brasiliano al Gran Chaco di Argentina e Paraguay), è stata un successo.
The Ultimate Mystery Meat aveva sottolineato che «insieme ad altre azioni del governo brasiliano e della società civile, compreso il settore del bestiame, il Brasile ha ridotto la deforestazione totale dell’Amazzonia di oltre due terzi, riducendo il suo inquinamento climatico più di qualsiasi altro Paese al mondo. Nel frattempo, l’industria della soia è riuscita a crescere ancora a un ritmo incredibile: anche se la deforestazione è precipitata, l’area coltivata a soia nell’Amazzonia brasiliana è più che triplicata, da un milione di ettari a 3,6 milioni in soli dieci anni».
Analisi e cifre evidenziano quindi l’infondatezza della propaganda del presidente Bolsonaro che non perde occasione per screditare il beneficio delle maggiori tutele ambientali e anzi indica la foresta come ostacolo per un pieno sviluppo economico della regione. Fino ad arrivare alla clamorosa “sparata” durante il suo discorso all’Assemblea generale delle Nazioni Unite: «È sbagliato affermare che l’Amazzonia fa parte del patrimonio dell’umanità».
Jair Bolsonaro: "L'Amazzonia non è patrimonio dell'umanità" https://t.co/H0SzseEDzC
— L'HuffPost (@HuffPostItalia) September 24, 2019
Minaccia da 100 milioni di dollari: piano USA per i privati in Amazzonia
Alla luce delle parole di Bolsonaro, non stupisce che la lezione economica della moratoria non sia stata recepita ai massimi livelli della politica statunitense e brasiliana. L’organizzazione ambientalista australiana Amazon Watch, lancia l’allarme per un accordo firmato tra i due governi che si propone lo sviluppo del bacino amazzonico (il 60% del quale è in Brasile) tramite un fondo da 100 milioni di dollari finanziato in gran parte dal settore privato. Il fondo è dichiaratamente orientato verso «settori difficili da raggiungere e ad alto rischio, per stimolare attività di successo in linea con la conservazione delle foreste e della biodiversità».
La reale anima green del fondo andrà verificata sul campo: ecco perché Amazon Watch suggerisce di tenere gli occhi aperti. Tanto più dopo la la conferenza stampa tenutasi pochi giorni fa a Washington in cui si è palesata la linea d’indirizzo condivisa tra le due nazioni. Nell’occasione, infatti, il ministro degli Esteri brasiliano, Ernesto Araújo, ha affermato che l’apertura della foresta pluviale allo sviluppo economico è «l’unico modo per proteggere davvero la foresta», mentre il segretario di Stato americano Mike Pompeo non faceva alcun riferimento agli incendi in corso in Amazzonia.
Posizioni totalmente avversate dalla ong, secondo cui «affidare al settore privato l’incarico di conservare l’Amazzonia ignora totalmente il ruolo storico delle popolazioni indigene come i migliori protettori della foresta pluviale. E li mette – specialmente quelli che vivono in isolamento volontario – a rischio ancora maggiore».