«Aramco nemica del clima e dei diritti umani». Gli attivisti sfidano le banche

Il colosso saudita del petrolio arriva in Borsa. Dieci organizzazioni scrivono alle banche-sponsor: operazione incompatibile con gli obiettivi sul clima

Matteo Cavallito
© Palácio do Planalto/Flickr
Matteo Cavallito
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Care banche, date retta: lasciate stare Saudi Aramco; fatelo in nome del clima o, per lo meno, dei tanto bistrattati, specie da quelle parti, diritti umani. Così, in sintesi, gli attivisti di dieci diverse organizzazioni in una lettera (dai toni pacati, ma il senso è chiaro…) inviata ai CEO di Bank of America, Citigroup, Credit Suisse, Goldman Sachs, HSBC, JP Morgan e Morgan Stanley. Destinatari non casuali, trattandosi, in questo caso, dei principali istituti coinvolti nell’atteso, imminente e in parte misterioso collocamento in Borsa del colosso petrolifero di Riyad. Ricca anzi ricchissima azienda di Stato destinata a diventare la più grande public company del mondo.

Aramco minaccia il clima

Non tutti i dettagli dell’offerta pubblica iniziale sono stati chiariti, ma è probabile – stando ai rumors più recenti – che il completamento dell’operazione implicherà una valutazione complessiva della compagnia inferiore alla quota obiettivo di 2 trilioni di dollari. I dettagli sono vaghi, la valutazione pare eccessiva, la notte è buia e gli analisti sono dubbiosi. Tutto come sempre, insomma, visto che in definitiva parliamo pur sempre di Arabia Saudita, non esattamente una campionessa di trasparenza e libero mercato (nel senso buono dell’espressione, si intende). Ma agli amici del clima, ovvero i nemici dei nemici del clima, tutto questo importa relativamente. Perché dal loro punto di vista – è chiaro – Saudi Aramco resta prima di tutto una compagnia insostenibile dal punto di vista ambientale.

I firmatari della lettera – le organizzazioni Rainforest Action Network, BankTrack, Earthworks, Friends of the Earth U.S., Global Witness, Indigenous Environmental Network, Oil Change International, ShareAction, Sierra Club e 350.org – sottolineano infatti il ruolo di Aramco come principale mittente di CO2 del mondo, un dato certificato dai calcoli del Climate Accountability Institute, un ente di ricerca statunitense. E non è tutto: «È lecito supporre – si legge nella missiva – che decine di miliardi di dollari associati a questa operazione verranno utilizzati da Aramco per raddoppiare la propria capacità di raffinazione oltre che per diversificare le proprie attività nel gas fossile e nel settore petrolchimico». Uno schiaffo al clima, dunque.

Sulla CO2 i conti non tornano

I numeri, sottolinea ancora la lettera, sono palesemente incompatibili con gli obiettivi di tutela del clima. Secondo i calcoli dell’IPCC (Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico), per contrastare efficacemente il riscaldamento globale occorrerà ridurre le emissioni di CO2 di oltre la metà nello spazio di un decennio fino ad azzerarle entro il 2050.

Tenendo per buone queste cifre, sostengono le organizzazioni, è lecito stimare in 350 gigatoni (350 miliardi di tonnellate) il credito di CO2 rimanente per consentire all’umanità di rispettare i piani di riduzione previsti. Consentire ad Aramco di estrarre tutte le sue riserve, prosegue la stima, significherebbe consumare 112 gigatoni, praticamente un terzo del budget globale complessivo a disposizione. Di fatto, concludono gli attivisti, si tratterebbe di una ricetta infallibile per la «distruzione del Pianeta».

Banche nemiche del clima

L’attacco frontale ad Aramco non riguarda soltanto il tema ambiente. Nel mirino c’è anche la sistematica violazione dei diritti umani da parte del regime saudita che della compagnia, ovviamente, ha il pieno e assoluto controllo.

Ma i primi destinatari della protesta restano in ogni caso le banche, senza le quali l’operazione non potrebbe mai andare in porto. Il mondo della finanza, si sa, non è fatto mai particolari scrupoli nell’investire nel comparto fossile. Una recente analisi della Ong tedesca Urgewald e della rete internazionale BankTrack, ad esempio, ha ricordato come negli ultimi tre anni i maggiori istituti del Pianeta abbiano investito quasi mezzo trilione di dollari nel settore del carbone.

Le banche che dovrebbero guidare il collocamento in borsa di Aramco, da parte loro, non fanno certo eccezione. Secondo i dati dell’associazione Rainforest, tra il 2016 e il 2018, JP Morgan avrebbe investito nel fossile quasi 196 miliardi di dollari, contro i 129 di Citigroup e i 107 di Bank of America. Le altre seguono a debita distanza ma con investimenti comunque significativi ben oltre quota 50 miliardi. Gli investimenti totali delle magnifiche sette in oil&gas et similia superano i 673 miliardi.

Gli investimenti delle banche nel fossile. I sette istituti che seguiranno direttamente Aramco nel collocamento in borsa hanno investito da soli 673 miliardi in tre anni. Fonte: Rainforest Action Network, Banking on Climate Change 2019.

Singapore dice No

L’ingresso in borsa di Aramco, in ogni caso, non coinvolge soltanto le sette banche già citate, chiamate a dividersi la fetta principale della torta fatta di importanti commissioni sull’operazione. L’elenco dei coordinatori dell’offerta, infatti, comprenderebbe anche altri 18 soggetti. Società finanziare più o meno note con una certa esperienza nel campo delle Ipo (le offerte pubbliche iniziali, appunto) e nelle relazioni finanziarie con i sauditi. Tra i possibili pretendenti dell’operazione, però, si segnala anche un gran rifiuto: Temasek, la società di investimento del governo di Singapore, ha detto no alle lusinghe di Riyad chiamando in causa, a quanto pare, i propri dubbi sulla sostenibilità ambientale dei piani di Aramco. Tra gli obiettivi della società asiatica c’è il dimezzamento delle emissioni associate al suo portafoglio di investimenti da qui al 2030.