Artwashing. Se il mecenatismo nasconde il marketing

Numerose aziende sono state accusate di artwashing negli ultimi anni. Ovvero di voler ripulire le loro immagini sostenendo la cultura

Il sostegno delle grandi aziende fossili alla cultura è finito nel mirino di una serie di Ong © BTWImages/iStockPhoto

L’arte è creatività, estetica, tecnica, studio, sentimento. È un linguaggio capace di trascendere i codici, di rompere gli schemi, di trasmettere emozioni senza intermediazioni. È inoltre una linea immaginaria tracciata parallela alla storia, all’evoluzione delle società, dei costumi, della moralità. Soprattutto, è sinonimo di cultura, di ricerca, di sforzo intellettuale. Per questo, per numerose multinazionali la promozione dell’arte è un’occasione straordinaria per “ripulire” la propria immagine. Grazie a quello che è stato definito artwashing.

Cos’è e quando è nato l’artwashing

Il termine fu coniato nel 2010 nel Regno Unito. Derivazione del più noto greenwashing, indica le strategie di mecenatismo adottate da una serie di aziende, concentrate soprattuto nel settore delle fonti fossili. Che dodici anni fa cominciano a finire nel mirino di alcuni collettivi di attivisti.

Il primo caso di campagna contro l’artwashing si chiamò “Liberate Tate”. Obiettivo del gruppo che lo lanciò fu di “liberare l’arte dal petrolio”. Il dito, in particolare, fu puntato contro il sostegno di British Petroleum al museo Tate, complesso di quattro gallerie d’arte situate a Londra, Liverpool e St. Ives. All’epoca, la strategia adottata dai militanti ambientalisti puntò a coinvolgere gli artisti e i visitatori delle mostre, al fine di sensibilizzarli sulla necessità di adottare un approccio etico nella scelta delle sponsorship.

La prima vittoria al Tate di Londra nel 2016

L’iniziativa si concentrò anche sui comportamenti di un altro colosso delle fonti fossili, Shell. Ne scaturì un libro, scritto dall’artista Mel Evans e pubblicato cinque anni più tardi. Parlando al quotidiano The Guardian, l’autrice spiegava: «Le compagnie petrolifere come British Petroleum non si lanciano in queste iniziative per generosità. Lo fanno perché vogliono disperatamente associare i loro marchi ai nomi dei grandi musei. Lo fanno per nascondere i danni che apportano agli ecosistemi in tutto il mondo. Vogliono soltanto ripulire la loro immagine».

La campagna “Liberate Tate“

La campagna contro il presunto artwashing fu incalzante, tra bidoni di liquido nero versati all’ingresso del museo e palloncini con appesi pesci e uccelli morti fatti volare nel cielo londinese. Alla fine, sarà un successo: nel 2016 l’allora direttore della Tate, Nicholas Serota, decise di rinunciare a BP come sponsor. Dopo ben 26 anni di mecenatismo.

Nello stesso anno, similmente, un altro importante centro culturale della capitale inglese decise di non rinnovare gli accordi con Shell. Si trattava del Museo della Scienza. All’epoca, emerse come la compagnia avesse perfino cercato di intromettersi nella scelta del contenuto di una delle esposizioni. Si trattava, guarda caso, di una mostra dedicata ai rischi legati agli impatti dei cambiamenti climatici.

Alcune aziende sono accusate di sfruttare il sostegno concesso alla cultura al fine di ripulire le loro immagini, praticando quello che è stato definito artwashing
Alcune aziende sono accusate di sfruttare il sostegno concesso alla cultura al fine di ripulire le loro immagini, praticando quello che è stato definito artwashing © jenoche/iStockPhoto

I fratelli Koch e il Museo americano di Storia naturale

Dal Regno Unito l’ondata di proteste si è poi estesa, contaminando dapprima New York. Era ancora il 2016 e all’epoca a finire nel mirino fu il miliardario David Koch. Assieme al fratello Charles, era noto per aver concesso decine di milioni di dollari allo State Policy Network. Una rete di think tank che si batteva contro le politiche ambientali del governo americano, all’epoca guidato da Barack ObamaL’organismo fu anche accusato da Greenpeace di diffondere rapporti senza fondamento scientifico, al solo fine di mettere in dubbio i risultati delle analisi ufficiali.

Ebbene, David Koch fu costretto a lasciare il consiglio d’amministrazione del Museo americano di Storia naturale. Due anni più tardi, saranno il Museo Van Gogh di Amsterdam e il Mauritshuis de l’Aia a chiudere i contratti in essere con la Shell. La strategia di miliardari e colossi delle fossili è dunque chiara. E via via, nel corso del tempo, si è affinata.

British Petroleum e il caso di un’opera di artisti aborigeni australiani

Nel 2019, il quotidiano svizzero Le Temps nel 2019 in questo senso la denuncia di un collettivo di militanti: «British Petroleum ha finanziato l’acquisizione di un’opera di artisti aborigeni australiani per includerla in un’esposizione del British Museum. Proprio in una fase in cui era al centro delle critiche in Australia per i progetti di ricerca offshore di idrocarburi».

In Francia, nel 2017, l’organizzazione non governativa 350.org aveva lanciato la campagna “Libérons le Louvre de l’industrie fossile” (“Liberiamo il Louvre dall’industria fossile”. In quel caso, la richiesta era di rinunciare alla partnership con la compagnia Total.

La direzione del celeberrimo museo si era tuttavia difesa, spiegando che il colosso degli idrocarburi forniva un sostegno finanziario al quale era impossibile rinunciare. La campagna non si è tuttavia fermata. E Greenpeace, nello scorso mese di dicembre, ha depositato un ricorso  presso il tribunale amministrativo di Parigi.

Greenpeace trascina in tribunale il Louvre di Parigi

L’associazione chiede che siano pubblicati i termini dei partenariati passati tra il Louvre e la Fondazione TotalEnergies. Ciò dopo aver tentato invano di ottenere tali documenti dalla stessa azienda. Nel frattempo, Greenpeace ha lanciato un’iniziativa a livello europeo per chiedere che siano vietate «pubblicità, partenariati e mecenatismi di tutte le imprese del settore fossile». Esattamente come avvenuto, in passato, per armi e tabacco.

Sempre alla fine del 2021, inoltre, è stato di nuovo il Museo della Scienza di Londra a finire nell’occhio del ciclone. Stavolta per aver scelto come partner per un’esposizione sul clima il gruppo minerario indiano Adani.

Ma le accuse di artwashing non riguardano solamente i petrolieri. A New York, di recente, il Metropolitan Museum ha annunciato la fine della lunga alleanza con la famiglia Sackler. Quest’ultima per anni ha concesso milioni all’istituto culturale, ed oggi si trova accusata di avere – con la società Perdue Pharma – contribuito alla crisi degli oppiacei negli Stati Uniti. Costata la vita a 470mila persone.