Rischi e costi per il clima crescono? Paghi “Pantalone”!

Swiss Re vuole che lo Stato copra le perdite dei disastri climatici, ma continuano a sostenere i combustibili fossili che alimentano la crisi

Dettaglio del Gherkin, l'edificio che ospita la sede di Swiss Re a Londra © Cristian Bortes/Wikimedia Commons

Forse non siamo ritornati al too big to fail (troppo grandi per fallire), ma quasi. Quello era il mantra neoliberista all’epoca della crisi del 2007-2008. Lo utilizzavano come scusa le grandi banche che avevano scatenato la crisi. Il ragionamento era che quelle banche, essendo sistemiche, se fossero fallite avrebbero potuto trascinare con sé l’intero sistema finanziario. Per cui era obbligatorio salvarle, a prescindere dalle loro colpe. E così andò.

«Too costly to bear»: i costi insostenibili della crisi climatica

Ora sembra che ci risiamo, stavolta però col clima. Nel senso che c’è chi comincia a fare il “piangina” dicendo che i colpi – finanziari – che la crisi climatica sta assestando sono troppo grandi da sopportare per i privati: come dire, too costly to bear (troppo costoso da sopportare).

Quelli che si lamentano, però, arrivano da quella stessa cerchia – i vertici delle imprese finanziarie più grandi del Pianeta – che a parole difende il libero mercato come un dogma, teorizzando un ruolo dello Stato ridotto al minimo («il governo non è la soluzione, ma il problema», diceva Reagan). Ma che, quando le cose non vanno o anche solo rischiano di non andare come aggrada a lorsignori, corre col cappello in mano da quello stesso Stato. Che poi vuol dire tutti noi, cioè le nostre tasche di cittadini contribuenti.

Il gioco dei partenariati pubblico-privati sulle assicurazioni climatiche secondo Swiss Re

La svizzera Swiss Re è uno dei maggiori colossi finanziari del Pianeta. È il secondo riassicuratore del mondo, vale a dire una di quelle aziende che assicurano le assicurazioni, svolgendo una funzione fondamentale per mantenere la stabilità del sistema finanziario. Gente che fa business sui rischi, su scala globale.

Da circa un anno e mezzo il Ceo di Swiss Re è il quasi sessantenne Andreas Berger. Gli viene riconosciuto di aver contribuito positivamente al risanamento finanziario dell’azienda. Il signor Berger di recente si è però lamentato: ha detto che le perdite legate alle calamità naturali, che si sono rapidamente moltiplicate, sono in sostanza diventate troppo grandi.

Berger ha affermato che l’impatto della crisi climatica sui conti dell’azienda sta aumentando. Perché stanno aumentando, in frequenza e gravità, i disastri causati dai cambiamenti climatici. Negli ultimi cinque anni, secondo il Ceo di Swiss Re, le perdite assicurate derivanti da calamità naturali hanno superato i 100 miliardi di dollari l’anno. Nella sola prima metà del 2025, tali perdite sono già arrivate a 80 miliardi di dollari. Fra le calamità che le hanno fatte impennare ci sono stati gli incendi che hanno devastato l’area di Los Angeles nel gennaio di quest’anno.

Che fare? La soluzione proposta da Berger è semplice: oltre a migliorare analisi, valutazione e gestione dei rischi – cioè a modellizzarli meglio per usare il gergo assicurativo – occorre che tutti facciano la loro parte. Tradotto: serve in particolare la creazione di partenariati pubblico-privato. E la ragione, nel Berger-pensiero, è presto detta: i disastri legati al clima causano perdite troppo elevate perché possano essere gestite da una sola parte (quella privata, ovviamente). Per cui bisogna coinvolgere il settore pubblico, insieme a tutti gli altri stakeholder della catena del valore, per dirla anche qui in aziendalese.

Troppo comodo: profitti privati, perdite scaricate sul pubblico

Sembra che personaggi come Berger credano davvero che andiamo tutti in giro con scritto “Giocondo” sulla fronte. Perché si può anche accettare che si cerchino modi nuovi di gestire i rischi collegati alla crisi climatica. Ci può anche star bene come cittadini –perché qui è dei soldi dei contribuenti che si parla – che le finanze pubbliche condividano una parte delle perdite prevedibilmente colossali che il clima fuori controllo causerà. Ma allora, sulle stesse basi di equità, bisogna condividere anche in tempi di vacche grasse.

Perdite da disastri climatici a parte, Berger stesso non fa mistero del resto che le cose per Swiss Re stanno andando bene, quanto ad esempio ad andamento del titolo. E allora perché non condividere una parte dei profitti con la collettività, aiutando “Pantalone”, a cui si chiede aiuto, a metter via qualcosa per quando le vacche saranno magre e cioè arriveranno i prossimi colpi, e cioè perdite per le assicurazioni, inferti dalla crisi climatica? Altrimenti siamo alle solite: privatizzazione dei profitti e socializzazione delle perdite.

Assicurazioni e fossili: un conflitto di interessi irrisolto

Poi, visto che di crisi climatica si parla, c’è da considerare l’elefante nella stanza. Cosa ha provocato e continua ad alimentare la crisi climatica? L’utilizzo dei combustibili fossili, come tutti sanno. Allora le compagnie di assicurazione e riassicurazione, prima di lamentarsi delle perdite causate dalla crisi climatica, dovrebbero fare il possibile per evitare di alimentarla. Tradotto: tagliare i ponti con l’industria fossile.

Solo che non lo stanno facendo, o comunque non col passo che servirebbe. Basta guardare ai report di Insure Our Future, campagna globale di Ong e movimenti sociali che da anni mette sotto la lente l’industria assicurativa e il suo ruolo nella crisi climatica. La valutazione che essa ha fatto dell’ultima stagione delle assemblee degli azionisti delle maggiori società assicurative parla eloquentemente di “continua inazione sul clima”. Anche il tabellino di Swiss Re curato da Insure Our Future non è propriamente esente da critiche.

Che si parta da qui, dunque: prima di lamentarsi dei costi della crisi climatica, cerchiamo di evitare di alimentarla. Basta con l’investire, finanziare, assicurare le fossili. Poi discutiamo del resto.

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