Per gli azionisti delle compagnie petrolifere il 2023 è un anno d’oro

Le cinque principali compagnie petrolifere del mondo premieranno i propri azionisti con oltre 100 miliardi di dollari per il 2023

Le compagnie petrolifere guadagnano meno, ma continuano a premiare gli azionisti © Alexey Krukovsky/iStockphoto

Fra dividendi e riacquisto di azioni proprie, durante l’anno solare 2022 le cinque maggiori compagnie petrolifere quotate (BP, Shell, Chevron, ExxonMobil e TotalEnergies) hanno premiato i propri azionisti con 104 miliardi di dollari. L’Istituto per l’economia dell’energia e l’analisi finanziaria (IEEFA) stima che, per il 2023, possano addirittura superare questa cifra. Nonostante i loro profitti di gran lunga inferiori, e nonostante l’opinione pubblica ormai non veda di buon occhio questo mare di denaro per chi alimenta il business dei combustibili fossili.

Gli extraprofitti delle compagnie petrolifere nel 2022

Il 2022 è stato l’anno della ripartenza economica in seguito alla pandemia ma, soprattutto, l’anno della guerra in Ucraina. L’isolamento commerciale della Russia ha provocato uno sconvolgimento dei mercati energetici globali, con un’impennata del prezzo sia del gas sia del greggio in Europa. Questo aveva portato a guadagni iperbolici per i colossi del petrolio, tanto che l’Unione europea aveva approvato un prelievo temporaneo sugli utili delle società energetiche i cui profitti superavano del 20% la media dal 2018 in poi.

«È giusto intervenire sugli extraprofitti delle imprese che hanno acquistato combustibili fossili» aveva commentato Mario Draghi, allora presidente del Consiglio, in un confronto con gli europarlamentari a Strasburgo. Secondo l’AIE (Agenzia internazionale dell’energia), l’intero settore del petrolio e del gas aveva guadagnato 4mila miliardi di dollari, contro i 1.500 miliardi degli anni precedenti. Si spiegano così i super dividendi.

Nel 2023 le compagnie petrolifere guadagnano meno, ma continuano a premiare gli azionisti

Gli utili del 2023 però sono nettamente calati rispetto al 2022, a fronte di un indebolimento dei prezzi delle materie prime. Per esempio il risultato netto di Shell nel periodo luglio-settembre ’23 è stato di 6,2 miliardi di dollari, contro i 9,5 dello stesso trimestre dell’anno precedente. Per l’intero 2022 aveva raggiunto un totale di 40 miliardi. Nonostante ciò, a novembre la compagnia inglese ha annunciato un piano di riacquisto di azioni proprie da 3,5 miliardi di dollari nell’arco del trimestre successivo, arrivando così a un totale di 23 miliardi nel corso dell’anno.

Anche ExxonMobil, che aveva registrato profitti per 56 miliardi di dollari nel 2022, ha visto un calo nel 2023, come riportato a ottobre dall’Associated Press. Molto peggiori rispetto alle aspettative anche i risultati di BP. Nel secondo trimestre, con un -70% degli utili rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, la compagnia petrolifera britannica ha deciso di aumentare del 10% i dividendi, anziché del 4% come inizialmente previsto. Con grande soddisfazione degli azionisti. Stesso discorso per il terzo trimestre 2023: l’utile netto rettificato si è fermato a 3,29 miliardi di dollari, contro gli gli 8,15 miliardi di dollari dell’anno precedente, ma la società ha confermato il riacquisto trimestrale di azioni per 1,5 miliardi di dollari.

In sintesi, i premi per gli azionisti delle compagnie petrolifere continuano a crescere. Anche in un anno come il 2023, decisamente più “magro” rispetto al precedente. Gli esperti però prevedono già un calo per il 2024. L’impressione di Trey Cowan dell’IEEFA è che l’industria petrolifera stia «iniziando a svuotare le casse per pagare gli azionisti più velocemente di quanto riesca a reintegrarle». E che «le future distribuzioni agli azionisti di queste società sembrano destinate a diminuire e non a continuare a salire».

L’accusa delle ong: Big Oil non crede abbastanza nella transizione ecologica

Come riportato dal Guardian, alcuni gruppi ecologisti attribuiscono questa scelta al tentativo di distrarre gli investitori da un futuro che appare quanto meno complicato per l’industria petrolifera. Il 2023 è stato l’anno più caldo mai registrato, con una media di +1,48 gradi centigradi rispetto ai livelli preindustriali e, durante alcuni giorni di novembre, addirittura oltre ai +2°C.  Con l’aggravarsi della crisi climatica, le politiche dei governi si stanno inevitabilmente allontanando dai combustibili fossili. Da parte loro, le aziende si trovano a difendersi da un’opinione pubblica sempre più indignata. E gli azionisti subiscono pressioni crescenti perché cedano le loro azioni.

A maggior ragione se i 23 miliardi che Shell destinerà agli azionisti sono più di sei volte la spesa prevista per le fonti rinnovabili lo scorso anno. Da parte sua, BP ha annunciato a fine 2022 l’intenzione di fare nuovi investimenti nella produzione di petrolio e gas. La compagnia petrolifera ridurrà la produzione solo del 25% rispetto ai livelli del 2019; solo tre anni fa aveva promesso una sforbiciata fino al 40%.

Da una parte, quindi, gli attivisti criticano le compagnie petrolifere per aver pensato più alle tasche dei propri azionisti che al futuro delle energie pulite. Dall’altra, le accusano di trarre profitto dalla guerra in Ucraina, mentre milioni di famiglie risentono gravemente della crisi economica causata dagli alti costi dell’energia.

Cosa aspettarsi per il futuro dei combustibili fossili

Ma il presente, e soprattutto il futuro, sono fatti anche di leggi più stringenti rispetto alle emissioni.  Recentemente Chevron e Exxon hanno dovuto ammettere pubblicamente forti svalutazioni e perdite dovute proprio a questo. Chevron ha dichiarato esplicitamente che sono dovute alle «continue sfide normative nello Stato che hanno portato a una riduzione dei livelli di investimento futuri previsti nei suoi piani aziendali». Ipotizzando che l’aumento dei dividendi serva per rabbonire gli azionisti delle compagnie petrolifere, il Guardian fa dunque pensare che le politiche ambientali stiano cominciando ad avere ripercussioni effettive.

Ma non tutti sono d’accordo. Dieter Helm, professore di politica economica all’università di Oxford ed ex consulente governativo, ha una lettura opposta. A suo parere, i pagamenti suggeriscono che l’industria è ancora fiduciosa sulla sua redditività futura. E in effetti gli investimenti di BP, ExxonMobil e Chevron sembrano dargli ragione. «Le grandi aziende – quelle non governative – non vedono la fine della domanda di petrolio nel prossimo futuro» aveva dichiarato a ottobre a CNBC Larry J. Goldstein, ex presidente della Petroleum Industry Research Foundation. «Vedono la domanda di petrolio in volumi piuttosto elevati per almeno i prossimi 20 o 25 anni. (…) C’è una grande differenza tra quello che le grandi compagnie petrolifere credono sia il futuro del petrolio e i governi di tutto il mondo».

Probabilmente entrambe le ipotesi hanno qualcosa di vero: è un periodo di transizione, con spinte a volte opposte. Da una parte, le compagnie fossili sono convinte di avere di fronte un lungo futuro. Dall’altra, lentamente, si vedono gli effetti delle politiche per la transizione energetica.