Dalle grandi banche 400 miliardi di dollari alle aziende che deforestano
395 miliardi di dollari da fine 2015 in poi: è il totale dei prestiti erogati dalle grandi banche ai settori più a rischio di deforestazione
Nell’ultimo mezzo secolo, il 17% della superficie della foresta amazzonica è stato convertito in coltivazioni o pascoli. In modo più o meno lecito. Se c’è un’azienda che più di ogni altra è finita nell’occhio del ciclone, senza dubbio è JBS. Negli anni, la più grande società di lavorazione della carne al mondo è stata accusata o multata per corruzione, deforestazione illegale, lavoro forzato, land grabbing ai danni dei popoli indigeni. Addirittura di “riciclaggio di bestiame”. Avrebbe cioè allevato bovini su terre abitate dal popolo Parakanã, e deforestate illegalmente, salvo poi trasferirli e dunque “ripulire” – almeno virtualmente – la loro filiera. JBS ha anche annunciato un piano di azzeramento delle emissioni entro il 2040, ma è talmente poco credibile che la procuratrice generale di New York l’ha citata in giudizio per greenwashing.
Nel 2021 sei grandi catene europee di supermercati hanno addirittura scelto di boicottare la sua carne. Ma tutto questo alle grandi banche sembra non importare. O meglio: 22 istituti hanno escluso JBS dai propri portafogli. Nonostante ciò, tra il 2018 e il 2024, le sue attività in Brasile hanno comunque ricevuto 1,1 miliardi di dollari in prestiti e 719 milioni in investimenti. Questa è soltanto una delle storie raccontate dalla ong Rainforest Action Network nel suo ultimo rapporto sulle banche che finanziano la deforestazione.
I capitali a 300 aziende di sei settori
Il rapporto prende in considerazione un arco temporale che va dalla firma dell’Accordo di Parigi sul clima, cioè dicembre 2015, fino alla metà del 2024 (giugno per i prestiti, luglio per gli investimenti). Ricostruisce i flussi finanziari indirizzati verso trecento aziende in sei settori considerati a forte rischio di deforestazione: carne bovina, olio di palma, cellulosa e carta, gomma, soia e legname. Tutto questo nel Sud-est asiatico, in Sudamerica e nell’Africa centrale e occidentale.
In tutto, le banche monitorate hanno erogato qualcosa come 395 miliardi di dollari di finanziamenti. Domina l’alimentare, con 83,8 miliardi di prestiti al settore della carne e 89,9 miliardi a quello della soia, sempre in questi otto anni e mezzo. Pur oscillando di anno in anno, il trend non accenna a calare, con 52,7 miliardi nel 2023 e 24,1 nella prima metà del 2024. Il totale, dunque, è di circa 77 miliardi in appena un anno e mezzo. A luglio 2024, gli investitori istituzionali detengono 41 miliardi di dollari in azioni e obbligazioni di società che è lecito considerare a rischio di deforestazione. 3 miliardi in più rispetto alla precedente edizione del rapporto. A fare la parte del leone in questo caso sono i settori dell’olio di palma (46% degli investimenti totali) e di carta e cellulosa (38%).
L’inefficacia delle iniziative volontarie per la sostenibilità
La graduatoria delle banche che finanziano attività a rischio di deforestazione è dominata da istituti brasiliani, anche perché sono più rappresentati degli altri nel database di riferimento. Impressionano i 95 miliardi di dollari erogati da Banco do Brasil tra il 2018 e giugno 2024: sono più rispetto a tutti gli altri membri della top 10 messi assieme. Sempre tra le prime dieci troviamo anche la spagnola Santander (in quarta posizione), l’olandese Rabobank (sesta) e la francese BNP Paribas (ottava).
Fa riflettere il fatto che, sulle prime trenta banche accusate di finanziare la deforestazione, più di metà abbiano siglato iniziative volontarie per la sostenibilità. Come ad esempio i Principles for Responsible Banking (PRB), l’alleanza delle banche per il clima (NZBA) e la Taskforce on Nature-related Financial Disclosures (TNFD). Sul tema, lo studio è perentorio: «Non abbiamo trovato alcuna prova che suggerisce che queste iniziative abbiano tagliato i flussi finanziari dannosi. Questo mette in luce un crescente divario tra gli impegni delle imprese e le loro azioni, perpetuando una falsa narrazione sulla sostenibilità».