Lo smantellamento dell’Europa green. A rischio anche la normativa sulla deforestazione importata

Proseguono i tentativi da parte dei governi di annacquare le regole a difesa della natura. Stavolta tocca alla deforestazione importata

La deforestazione importata è quella causata da prodotti che vengono immessi in commercio in Europa © Paralaxis/iStockPhoto

Più si avvicinano le elezioni, più le normative europee più ambiziose in materia di ambiente e clima vengono smantellate. Dopo la normativa annacquata sulla due diligence e le enormi difficoltà nei negoziati sulla Nature Restoration Law per la tutela della biodiversità, anche il regolamento sulla deforestazione importata scricchiola. 

L’Austria capofila dei dissidenti, sostenuta anche da Italia, Francia e Polonia

Si tratta di un testo unico al mondo nel suo genere, che era stato adottato nel dicembre del 2022. E per il quale si prevedeva un’entrata in vigore entro la fine di quest’anno. Tuttavia, come spiegato alla Reuters da tre funzionari europei, un nutrito gruppo di Paesi ha chiesto che il regolamento venga rivisto. A capeggiare la ventina di Stati che puntano ad annacquare il documento c’è l’Austria. Ma a schierarsi subito con Vienna sono state numerose diplomazie, comprese quelle di Italia, Francia, Polonia e Svezia

Il motivo? Il regolamento vorrebbe porre fine alle importazioni di beni che sono stati prodotti deforestando al di fuori del Vecchio Continente. La lista è particolarmente lunga: da una parte beni alimentari come cacao, caffè, soia, olio di palma o ancora carne bovina. Dall’altra anche legnami, caucciù, cuoio, carta, carbone, pneumatici o perfino cosmetici. Ma ad essere coinvolti nei divieti sarebbero anche i prodotti made in Europe, se non rispettano gli standard previsti. 

Al Consiglio Agricoltura la richiesta di revisioni, ritardi e deroghe

Troppo per i governi europei, per i quali evidentemente è più importante privilegiare i business rispetto alla tutela dei polmoni verdi dai quali dipende il futuro della Terra. Ma a pesare è stata senz’altro la protesta degli agricoltori, che hanno convinto numerosi esecutivi a fare retromarcia. 

Così, nel corso del Consiglio europeo Agricoltura dello scorso 26 marzo, l’Austria ha avanzato due richieste. In primo luogo, una «revisione mirata e immediata» dei contenuti del regolamento. In secondo luogo, un ritardo «considerevole» dell’entrata in vigore. Ciò «al fine di lasciare sufficientemente tempo» agricoltori, forestali e Stati membri di conformarsi. Eppure, nel 2022 questi stessi governi avevano ritenuto che due anni fossero sufficienti per fare il necessario. 

Ma non basta: come rivelato dal quotidiano francese Novethic, nel testo l’esecutivo di Vienna a chiesto anche una «deroga generale» per tutti gli Stati membri la cui superficie forestale non sia diminuita nel corso degli ultimi decenni, così come per i piccoli produttori. Se la prima delle due richieste appare oggettivamente irricevibile da un punto di vista (il fatto di essere stati virtuosi in patria in passato non significa che si possano allargare le maglie in futuro), la seconda proposta potrebbe avere un senso. 

Perché la normativa rischia di avvantaggiare i grandi produttori 

Nel caso del cacao, ad esempio, i piccoli produttori, nel corso di un Salone organizzato a Parigi nello scorso mese di dicembre, avevano sottolineato le loro difficoltà. Per una grande impresa, infatti, è possibile investire per adeguarsi al regolamento europeo e garantire la tracciabilità dei prodotti. Discorso decisamente diverso, invece, per le piccole aziende, per le quali costi potrebbero risultare insostenibili.

D’altra parte, la spesa aggiuntiva legata alla tracciabilità del cacao sarebbe di circa 100 euro a tonnellata per un prezzo che oscilla intorno ai 2mila euro a tonnellata su un anno, ovvero intorno al 5%. A vincere potrebbero perciò essere le grandi multinazionali, che riuscirebbero a schiacciare ancor di più i piccoli produttori. Ovvero quelli che, spesso, tentano anche di utilizzare metodi più sostenibili e rispettosi della natura. Il risultato, dunque, potrebbe essere paradossale (o forse voluto, chissà).

Non a caso, realtà come Fairtrade si stanno organizzando per tentare di aiutare i produttori più in difficoltà. Anche sfruttando immagini satellitari per rendere più agevole il monitoraggio.

Le lamentele dei governi di Asia, Africa e America Latina

Secondo quanto riportato dal Financial Times, inoltre, sul tavolo ci sarebbe anche un possibile ritardo nella stesura della particolare classificazione, che potrebbe a sua volta «procrastinare la vigilanza sulle aree soggette a deforestazione». Ciò dopo che «alcuni governi in Asia, Africa e America Latina hanno spiegato che le regole risulterebbero troppo onerose, ingiuste e capaci di allontanare gli investitori». 

In particolare, l’Unione europea dovrebbe classificare ciascuna nazione secondo il livello di rischio adesso attribuito. Essere basso, standard o alto. Tale distinzione era previsto fosse effettuata entro dicembre, ma, secondo informazioni raccolte nei corridoi di Bruxelles, inizialmente tutti i Paesi terzi potrebbero essere lasciati ecumenicamente al livello intermedio. Così da dar loro più tempo per adattarsi. 

Un modello di business fondato sulla distruzione della natura

Cosa ne sarà del regolamento sulla deforestazione importata, dunque, è difficile capirlo allo stato attuale. Quello che è invece chiarissimo e che un’enorme gamma di business è strettamente legata alla distruzione della natura. Prova ne è il fatto che sia così difficile, lungo e costoso cambiare modelli di produzione. La conferma che l’economia mondiale si fonda su un uso insensato e insostenibile delle risorse naturali che abbiamo a disposizione.