L’era di Bolsonaro. Da 15 anni l’Amazzonia non soffriva così
Con Bolsonaro presidente deforestazione ai massimi da 15 anni. Finanza e agrobusiness senza freni, impunità e indigeni messi a tacere
L’area disboscata in Amazzonia nei primi mille giorni di governo dell’attuale presidente Jair Bolsonaro è cresciuta del 74% rispetto al periodo precedente al suo insediamento. Nello stesso triennio, la deforestazione nella regione amazzonica (l’Amazonia legal) ha consumato un’area di 24,1 mila chilometri quadrati. Questo riportano i dati del sistema di allarme rapido (Deter) dell’Inpe, l’Istituto nazionale per la ricerca spaziale.
Di più: i 13.235 chilometri quadrati di copertura vegetale persi tra agosto 2020 e luglio 2021 rappresentano il record negativo, in 12 mesi, degli ultimi 15 anni. Un dato di cui non andar fieri, e perciò divulgato strategicamente solo dopo la conclusione della Cop26 sul clima di Glasgow. Certo, 2 milioni e 410mila ettari di foreste scomparsi sono difficili da immaginare. Ma un’idea ce la possiamo fare figurandoci 3,3 milioni di campi di calcio uno accanto all’altro. Ovvero più di 3.300 cancellati ogni giorno, sotto l’attuale governo del Brasile.
Un dato di per sé allarmante, pensando alla biodiversità animale e vegetale tagliata e bruciata per far spazio, perlopiù, a distese di colture e allevamenti intensivi. Tuttavia il peggio è forse che queste cifre sono il segno di una regressione. Il Brasile veniva infatti da quasi un decennio (2009-2018) di numeri più contenuti per incendi e aree deforestate. Le rilevazioni dicono ora che il 2019 ha registrato un aumento di roghi del 30,5% rispetto al 2018. E il 2020 ha segnato un +15,7% rispetto all’anno precedente.
Le responsabilità della finanza: 157 miliardi di dollari alla deforestazione
Visto, però, che non è materialmente il presidente Bolsonaro ad azionare motoseghe e bulldozer, ad appiccare gli incendi, quali fattori alimentano il fenomeno? A dircelo, in parte, è un recente rapporto dell’organizzazione Global Witness. I ricercatori hanno scoperto che «banche e gestori patrimoniali con sede in Unione europea, Regno Unito, Stati Uniti e Cina hanno concluso accordi per un valore di 157 miliardi di dollari con aziende accusate di aver distrutto la foresta tropicale in Brasile, Sud-Est asiatico e Africa». Un’enorme massa di denaro che sostiene quindi le imprese coinvolte, e che non viene concessa gratis.
I nomi e i cognomi
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«Questi istituti finanziari – continua Global Witness – hanno incassato 1,74 miliardi di dollari di interessi, dividendi e commissioni dal finanziamento delle parti dei gruppi agroalimentari che comportano il più alto rischio di deforestazione». Così il circuito finanziario foraggia e si nutre allo stesso tempo del profitto acquisito dalle compagnie. Società che, principalmente, operano nelle filiere di soia, carne bovina, olio di palma, cellulosa e carta.
In particolare, il rapporto cita colossi della finanza come HSBC, Deutsche Bank, BNP Paribas, Rabobank e Bank of China. Anche se la palma della banca più brava a fare accordi di questo tipo va a una sola. All’americana JPMorgan, che «ha concluso accordi per un valore stimato di 9,38 miliardi di dollari con aziende accusate di deforestazione».
Il peso di Bolsonaro nella guerra alle foreste
Detto della cattiva finanza nemica dell’ambiente, su cui molto altro si potrebbe aggiungere e abbiamo scritto in passato, le responsabilità politiche del corso recente stanno comunque in capo al presidente. Negazionista del climate change come pure della pandemia di Covid-19, non dimentichiamolo. L’avevamo sottolineata quando scrivevamo dell’avanzata dei roghi soprattutto nei boschi del Cerrado, meno protetti dalle leggi sulle areas embargadas, e su cui alcuni paventano un futuro di desertificazione. Ed era emersa durante la guerra condotta da Bolsonaro agli scienziati che fanno luce – con i dati – sulla perdita degli alberi.
Ma lo ricorda molto bene anche un recente articolo di «The Intercept» in cui si registrano alcuni passaggi legislativi che lasciano maggior campo libero a chi distrugge le foreste e usa la violenza. Grazie a un disegno di legge approvato dalla camera bassa ad agosto «che consentirebbe agli accaparratori di terre di ottenere il titolo legale di terre pubbliche rubate. E l’immunità da procedimenti giudiziari per reati passati».
Come pure per un altro atto legislativo proposto, noto come Marco Temporal. Che «invaliderebbe e annullerebbe in modo significativo le rivendicazioni sulla terra degli indigeni». Una norma sostenuta «con forza dal caucus dell’agrobusiness e da Bolsonaro».
Contestatissimo, il Marco Temporal è acora al centro di una disputa che ha chiamato in causa la Corte suprema brasiliana. Mentre Bolsonaro continua a gridare che se non passasse sarebbe un disastro per il settore agroalimentare. E la situazione generale è tale, tuttavia, che, di fronte alla mancanza di freni istituzionali agli appetiti sulla terra delle imprese – molte statunitensi – e degli investitori, c’è chi si è rivolto direttamente alla finanza (responsabile?). Con una lettera aperta sull’indebolimento delle regole sociali e ambientali in Brasile, la Forest & Finance Coalition ha invitato le istituzioni finanziarie «ad abbandonare gli investimenti che minacciano le foreste e i diritti dei popoli indigeni, e quindi a non contribuire ulteriormente alla deforestazione e alle violazioni dei diritti umani in Brasile».