«Caldo estremo e lavoro: un rischio sottovalutato»
Intervista ad Alessandro Marinaccio (Inail) sui rischi del caldo estremo per la salute dei lavoratori e le misure di prevenzione possibili
Le ondate di caldo che stanno colpendo l’Italia in questi giorni non sono solo un disagio, ma un rischio concreto per chi lavora, soprattutto all’aperto o in ambienti non climatizzati. Negli ultimi anni il legame tra cambiamenti climatici e salute pubblica è diventato sempre più evidente, ma resta ancora poco discusso il modo in cui l’aumento delle temperature incide sulla sicurezza nei luoghi di lavoro. Eppure i dati parlano chiaro: gli infortuni correlati al caldo sono in crescita, e colpiscono soprattutto i lavoratori più fragili.
Ne abbiamo parlato con Alessandro Marinaccio, epidemiologo e ricercatore dell’Inail, che coordina il progetto Worklimate, una delle principali esperienze italiane di studio sui rischi climatici in ambito occupazionale.
Negli ultimi tempi si parla molto di cambiamenti climatici e salute. Ma il tema della sicurezza sul lavoro sembra meno presente. È davvero così?
Sì, è una constatazione corretta. Per anni, quando si parlava di salute e cambiamenti climatici, il discorso si concentrava soprattutto sugli effetti sulle fasce più fragili della popolazione – come gli anziani o le persone con patologie croniche – e su eventi estremi come le ondate di caldo. In ambito scientifico esiste una letteratura ormai consolidata che dimostra un incremento della mortalità associata al caldo, per esempio. Ma il legame tra cambiamenti climatici e salute e sicurezza sul lavoro è entrato solo più di recente nel dibattito pubblico e nelle agende istituzionali.
In Italia, abbiamo cominciato a colmare questo vuoto grazie a progetti di ricerca come Worklimate, sviluppato da Inail e Cnr. Abbiamo raccolto e analizzato dati epidemiologici che mostrano in modo chiaro come esista una relazione tra l’aumento delle temperature e l’incremento degli infortuni sul lavoro. Si tratta di evidenze che non solo rafforzano la nostra comprensione del problema, ma contribuiscono anche a far nascere o consolidare politiche e strumenti di prevenzione.
Quando parliamo di infortuni legati al caldo, a cosa ci riferiamo esattamente?
È importante chiarirlo: non ci riferiamo solo ai classici colpi di calore, che sono sicuramente eventi gravi e immediatamente riconducibili all’eccesso di temperatura. Quello è solo un aspetto, e forse anche il più facile da rilevare. Ma c’è un’intera gamma di infortuni che possono essere indirettamente legati al caldo, e che spesso sfuggono alla classificazione ufficiale.
Pensiamo a un operaio edile che lavora per giorni in un cantiere sotto temperature elevate, con ritmi serrati e tempi di consegna da rispettare. In condizioni di stress termico prolungato, i riflessi si riducono, la lucidità cala, aumenta il rischio di commettere errori. Se questa persona scivola da un’impalcatura o non riesce a reagire in tempo a un pericolo, quel tipo di infortunio potrebbe non essere classificato come “caldo-correlato”, ma lo è eccome.
Il caldo non causa solo malori acuti, ma può amplificare la fatica, la distrazione, il rischio. E la prevenzione diventa difficile se non si riconosce questa connessione. Per questo è importante parlare di “temperatura-correlazione” anche per gli infortuni che non sembrano legati in modo diretto al clima.
Ci sono categorie di lavoratori particolarmente vulnerabili?
Sì, e anche in modo controintuitivo. I dati che abbiamo raccolto ci dicono, ad esempio, che i lavoratori più giovani sono particolarmente a rischio. Potrebbe sembrare strano: si tende a pensare che siano più forti, più resistenti. Ma quello che osserviamo è che spesso la loro percezione del rischio è più bassa, forse per inesperienza, forse per una sensazione di invulnerabilità tipica dell’età. Questo li espone maggiormente.
Un’altra fascia molto vulnerabile è rappresentata dai lavoratori migranti. Qui si sommano più fattori: barriere linguistiche, culturali, religiose – come il digiuno durante il Ramadan – e, in molti casi, condizioni contrattuali irregolari. Dove non ci sono contratti, spesso non c’è formazione, non ci sono dispositivi di protezione, non c’è accesso agli strumenti di allerta. È un problema enorme, perché riguarda migliaia di persone in settori come l’agricoltura, l’edilizia, la logistica.
Infine, va sottolineato che il rischio aumenta nelle microimprese. Dove le risorse sono limitate, le pratiche di prevenzione e formazione risultano più frammentarie o informali. È lì che serve uno sforzo maggiore di informazione, formazione e supporto.
Come si misura l’impatto del caldo sugli infortuni? I dati ufficiali non bastano?
Esatto. Se ci basassimo solo sulle statistiche correnti, rischieremmo di sottostimare drasticamente il fenomeno. Un decesso causato dal caldo, per esempio, nelle registrazioni ufficiali viene spesso classificato come arresto cardiaco, crisi respiratoria, malore. Il caldo resta invisibile.
Per questo, come ricercatori, usiamo modelli epidemiologici. Mettiamo in relazione le serie storiche delle temperature con gli eventi patologici – siano essi decessi, accessi in pronto soccorso o infortuni sul lavoro – e verifichiamo se durante i giorni di caldo estremo si registra un numero superiore di eventi rispetto alla media. Questo ci permette di identificare un “eccesso” di casi, cioè una quantità di infortuni che possiamo ragionevolmente attribuire al caldo.
È un approccio indispensabile per capire davvero l’entità del fenomeno. E come si dice nel nostro campo: no data, no problem. Se un problema non è misurato, non esiste nemmeno nel dibattito pubblico. E quindi non viene affrontato.
Cosa si può fare per prevenire gli infortuni? Ci sono soluzioni semplici ed efficaci?
Assolutamente sì. Le misure di prevenzione sono in molti casi intuitive, semplici da implementare e non particolarmente costose. Si dividono in due grandi categorie: strutturali e organizzative.
Quelle strutturali comprendono, ad esempio, l’accesso costante ad acqua potabile nei luoghi di lavoro, la possibilità di fare pause in zone ombreggiate o climatizzate, la presenza di spazi adeguati per il recupero. Può sembrare banale, ma in settori come l’agricoltura, dove si lavora per ore sotto al sole, la disponibilità di acqua fresca può fare la differenza tra un turno sicuro e un rischio grave.
Le misure organizzative riguardano la rotazione dei turni, la rimodulazione degli orari per evitare le ore più calde della giornata, la distribuzione equa del carico di lavoro. Anche qui, parliamo di soluzioni concrete e attuabili, che però richiedono una maggiore consapevolezza e attenzione da parte dei datori di lavoro.
Nel progetto Worklimate abbiamo anche sviluppato una piattaforma di allerta climatica, aggiornata ogni giorno, che indica – con una risoluzione di due chilometri – il livello di rischio per ogni area del Paese. Sempre più Regioni la stanno usando per emanare ordinanze che sospendono le attività nei momenti di maggiore rischio. È un esempio concreto di come la ricerca scientifica possa tradursi in strumenti utili per la salute pubblica.
E sul piano normativo? La legge italiana è adeguata?
La normativa esiste, ma non è aggiornata alla sfida climatica. Il decreto legislativo 81 del 2008, che è ancora il punto di riferimento per la sicurezza sul lavoro, prevede la valutazione di tutti i rischi, ma non menziona esplicitamente quelli legati al clima. All’epoca, il tema era ancora marginale.
Oggi le cose sono cambiate. E infatti è già possibile per un’azienda, ad esempio, accedere alla cassa integrazione per eventi climatici estremi, quando le autorità impongono la chiusura per caldo eccessivo. Ma questo strumento, fino a poco tempo fa, era quasi sconosciuto e sottoutilizzato. L’anno scorso, Inail e Inps hanno pubblicato una circolare che lo rilancia, sottolineando che è attivabile anche quando la temperatura percepita supera i 35 gradi.
Anche qui si vede come la produzione scientifica può fare da leva per far emergere problemi, aggiornare le politiche, migliorare la tutela dei lavoratori.
Che cosa manca ancora, secondo lei, per affrontare adeguatamente questi rischi?
Manca ancora molto, soprattutto sul piano della ricerca. Oggi abbiamo dati affidabili sugli effetti delle ondate di caldo, ma sappiamo poco o nulla sulle malattie professionali legate ai cambiamenti climatici, come le patologie renali in agricoltura, o sugli effetti sinergici tra caldo e sostanze tossiche.
E poi c’è il grande tema della percezione del rischio. Spesso è sottostimata, sia da parte dei lavoratori che dei datori di lavoro. Senza consapevolezza, le misure di prevenzione non vengono adottate. Per questo è fondamentale anche il ruolo dell’informazione e della comunicazione: per rendere visibili i rischi, costruire consapevolezza, diffondere buone pratiche.
Ascolta il podcast con l’intervista a Alessandro Marinaccio.
Nessun commento finora.