Cambiamenti climatici e cibo, il caso indiano

In India, gli effetti dei cambiamenti climatici hanno portato ad un boom dei prezzi di pomodoro, riso e cipolle, con ripercussioni globali

Gli effetti dei cambiamenti climatici in India hanno portato a un boom dei prezzi di alcuni alimenti base. © Josh Hild/pexels

Per la prima volta da marzo 2021, secondo i dati dell’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura (Fao), i prezzi alimentari globali sono in calo. La crisi alimentare globale inizia ad arrestarsi? È presto per dirlo, ma una cosa è certa: l’aumento dei prezzi del cibo è strettamente connesso ai cambiamenti climatici. E altrettanto certo è che i governi non rispondono sempre nel modo migliore.

Infatti, per arginare l’aumento dei prezzi, alcuni governi nazionali hanno adottato misure protezionistiche. Che, spesso, invece di risolvere la situazione hanno contribuito ad aggravarla ulteriormente. Con conseguenze sull’intera catena alimentare globale. È il caso dell’India, che, per cercare di frenare l’aumento dei prezzi di alcuni alimenti base della sua cucina, ha adottato misure che hanno reso più difficile e costoso l’accesso al cibo ai Paesi più poveri. Oltre a correre il rischio di aumentare l’inflazione globale.

Boom dei prezzi alimentari: le cause? I cambiamenti climatici

Se osservavamo da vicino il livello dei prezzi in India a luglio, non sembrava poi così diverso dal nostro. L’inflazione annuale registrata a luglio era del 7,5% (contro il 4,9% del mese precedente e, soprattutto, il 6,6 delle previsioni), non così lontana dal 6% italiano. Ma, nel caso indiano, era il livello più alto degli ultimi 15 mesi e sfondava la soglia massima di tolleranza della Banca centrale indiana (che è il 6%). L’aumento spropositato era stato guidato dalla crescita dei prezzi di legumi, verdure, cereali e spezie. Il prezzo del riso, ad esempio, era aumentato del 11,5%. Le cipolle addirittura del 20%. Ma il caso più eclatante era quello dei pomodori. Il cui prezzo, a luglio, era salito del 340% su base annua. Tanto che alcune catene di fast food avevano smesso di usarlo nelle loro preparazioni.

Da luglio a oggi, anche in India l’inflazione è scesa. Prima al 6,8% ad agosto e poi al 5% a settembre. Comunque sempre sopra il target del 4% della Banca centrale indiana. Ad ottobre, ciò che sembrava preoccupare di più, erano cereali e legumi. I cui prezzi continuavano a crescere a ritmi sostenuti, superiori al 10%. Quello che invece preoccupa di più oggi, sono il latte e i suoi prodotti derivati. Tanto che, sempre secondo la Fao, i prezzi alimentari globali avrebbero registrato un rallentamento ancora maggiore se non fosse aumentato il prezzo di questi prodotti.

Ma qual è stata la causa degli enormi aumenti dei prezzi registrati nella torrida estate indiana? I cambiamenti climatici. Ovvero temperature superiori alla media e piogge che tardano ad arrivare (leggasi siccità), seguite da piogge eccessive e alluvioni. Insomma, i “soliti” eventi climatici estremi hanno danneggiato i raccolti. Le coltivazioni di pomodori e cipolle, ad esempio, sono state colpite dalle piogge dei monsoni. E non ci sarebbe nulla di strano, se non fosse che la loro frequenza e intensità sono state accentuate dal riscaldamento climatico.  

Le misure protezionistiche del governo indiano

Temendo un ulteriore calo dei raccolti (e un ulteriore aumento dei prezzi) a causa del monsone, in estate il governo indiano è intervenuto con una serie di misure per «proteggere il mercato interno». Tra queste, il 19 agosto ha introdotto un dazio del 40% sull’esportazioni di cipolle, in vigore fino al 31 dicembre (nel 2019 era arrivato addirittura a vietarne l’esportazione). A fine luglio, invece, aveva stabilito il divieto di esportazione del riso Indica, dopo che l’anno scorso aveva già introdotto una tassa sull’export di tutto il riso non-basmati. Entrambe misure alquanto rilevanti se si pensa che l’India è il secondo produttore mondiale di riso dopo la Cina. E, infatti, i prezzi del riso ad agosto hanno raggiunto il livello più alto dal 2008, per poi iniziare a decrescere piano piano.

Inoltre, il governo ha anche limitato le esportazioni di grano e zucchero e le scorte di alcuni raccolti. Per frenare i prezzi dei pomodori, invece, aveva tolto dei limiti alle importazioni in modo da facilitarne l’acquisto dal vicino Nepal. Infine, per alleviare i costi per le famiglie, è stato prorogato fino a dicembre un programma di distribuzione di generi alimentari gratuiti destinato a circa il 57% della popolazione.

Le conseguenze sul mercato domestico e globale

L’India è il secondo produttore e il primo esportatore al mondo di riso (ben il 40% dell’export mondiale è indiano), il primo esportatore di cipolle (12%) e anche il primo produttore al mondo di pomodori. Quindi, era inevitabile che i danni ad alcune coltivazioni indiane avessero conseguenze sui prezzi globali. Ma lo stesso non si può dire per le misure adottate dal governo. Misure adottate con l’intento di rendere più costosa l’esportazione, in modo da avere più quantità destinate al mercato interno e, quindi, frenare l’aumento dei prezzi domestici. Ma a discapito degli altri Paesi. Non c’è dubbio che l’inflazione domestica indiana sia difatti diminuita. Ma siamo sicuri sia tutto merito delle politiche protezionistiche del governo? E, soprattutto, a quale prezzo per gli altri paesi?

Ovviamente, le scelte del governo non sono state dettate esclusivamente da ragioni economiche o umanitarie. Ma anche – e forse soprattutto – da motivi elettorali. Proprio a novembre, infatti, si tengono le elezioni in 5 dei 28 Stati indiani, mentre l’anno prossimo il Paese va al voto per le elezioni nazionali, con il presidente Modi in cerca del terzo mandato. E i politici indiani sanno bene che non sarebbe la prima volta che il prezzo delle cipolle ha delle conseguenze sulla politica interna indiana. Chissà se anche le elezioni del prossimo anno passeranno alla storia come le “elezioni della cipolla”.