Compensazione della CO2, la retromarcia delle multinazionali
Dopo gli scandali legati ai programmi di compensazione delle emissioni di gas serra, alcune grandi aziende stanno rivedendo i loro piani
Una barretta di cioccolato che diventa un albero, poi una vanga, poi una pala eolica. Sono le immagini dello spot con cui la multinazionale svizzera Nestlè, nel 2021, ha annunciato l’obiettivo della carbon neutrality per uno dei suoi brand iconici, KitKat. Ha preso lo stesso impegno anche per Perrier, la celebre marca di acqua frizzante. Su entrambi, però, ha deciso di fare dietrofront. Almeno per il momento. Questo perché sarebbero stati realizzabili soltanto facendo un massiccio ricorso alla compensazione delle emissioni di gas a effetto serra. Cioè al finanziamento di progetti che li rimuovono dall’atmosfera, compensando – appunto – quelli emessi dalle attività dell’azienda. Una strada ritenuta ormai inaffidabile.
Si allontana l’ambizione della carbon neutrality
Nestlè dunque accantona le ambizioni di carbon neutrality per KitKat e Perrier, ma anche per le linee di alimenti a base vegetale Garden Gourmet e Sweet Earth Foods. Lo fa sapere Bloomberg, dopo aver parlato con alcuni portavoce. Il gruppo, che nel 2022 ha fatturato oltre 94 miliardi di euro, resta intenzionato a raggiungere il net zero entro il 2050. Rispetto ai suoi piani iniziali, però, ha cambiato approccio. Perché non intende più affidarsi in modo preponderante ai progetti di compensazione dei gas serra emessi in atmosfera.
Anche la compagnia aerea EasyJet ha fatto una scelta simile. Nel 2019 era stata la prima al mondo a siglare un contratto triennale per compensare le emissioni di CO2 dei suoi voli, spendendo qualcosa come 29 milioni di euro all’anno. A partire da dicembre 2022, ha smesso di farlo. La sua tabella di marcia per raggiungere il net zero entro il 2050 ora si impernia prevalentemente sui carburanti alternativi, sugli aerei più efficienti e sullo sviluppo di tecnologie per la cattura della CO2.
Perché non ci si fida più della compensazione
Questa può sembrare una marcia indietro, ma un’analisi del Washington Post la definisce come una buona notizia. Perché negli ultimi anni molte aziende hanno acquistato carbon credit a iosa, cioè certificati che attestano che un determinato progetto – per esempio di riforestazione, gestione forestale sostenibile o produzione di energia da fonti rinnovabili – ha rimosso una certa quantità di gas serra dall’atmosfera. Il problema è che li hanno utilizzati come dei lasciapassare per continuare a emettere quanto prima. Se non di più.
A scoperchiare il vaso di Pandora è stato lo scandalo di Verra. L’ente che, per anni, avrebbe certificato progetti di gestione forestale, gonfiandone artatamente i risultati positivi. Ma capita anche che alcune di queste iniziative vadano – letteralmente – in fumo. I catastrofici incendi in Canada della primavera 2023 hanno danneggiato, tra gli altri, anche gli alberi di un’enorme area forestale che garantiva il rilascio di carbon credit.
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Certo, investire nella ricerca e sviluppo di nuove tecnologie per tagliare le proprie emissioni è molto più complicato rispetto ad acquistare carbon credit. Più complicato e anche più dispendioso. Ma una società come Nestlè, conclude il Washington Post, emette anche tanta CO2 quanta il Marocco (93,3 milioni di tonnellate lo scorso anno). E di risorse da spendere ne ha, considerato il suo fatturato. Chi, se non una multinazionale di questo calibro, può permettersi di puntare in alto?