A decidere sul clima, spesso, siamo noi
Energia, trasporti, CO2. E gli intrecci con la finanza. Ogni settimana il punto sui cambiamenti climatici firmato da Andrea Barolini
La Turchia ha annunciato la volontà di ratificare l’Accordo di Parigi del 2015. Pur avendolo firmato nel 2016, la nazione euro-asiatica non aveva infatti mai completato il processo, che prevede l’approvazione da parte del Parlamento. Il presidente Recep Tayyip Erdogan ha dichiarato che i deputati turchi valuteranno il documento il mese prossimo, prima della ventiseiesima Conferenza mondiale sul clima delle Nazioni Unite, la Cop 26 che si terrà a Glasgow nel mese di novembre.
Al di là dell’inqualificabile ritardo che la Turchia cerca ora di recuperare, la vicenda di Ankara ci ricorda come e quanto la politica locale (nazionale) sia un fattore “prevalente”, anche rispetto a questioni universali. Donald Trump, che ha guidato gli Stati Uniti per quattro anni facendoli temporaneamente uscire dall’Accordo di Parigi. Jair Bolsonaro che in Brasile continua ad osservare quasi impassibile la deforestazione che avanza in Amazzonia. Vladimir Putin che da decenni inonda di gas russo il mondo intero (Europa in primis). E ancora Erdogan, Viktor Orban in Ungheria o Scott Morrison in Australia. Tutti questi leader hanno in qualche modo – udite, udite – ragione.
Nessuno di loro è stato infatti eletto sulla base di un programma climatico ambizioso. Al contrario, molti di loro non hanno fatto mistero nelle campagne elettorali di voler contrastare politiche di riduzione delle emissioni di gas ad effetto serra. Ora, si potrà pur eccepire, in alcuni casi, sulla compiutezza democratica di alcune nazioni. Ma in generale parliamo di democrazie, nelle quali a decidere sono i popoli.
Quando parliamo di mancanza di ambizione, quando critichiamo politiche troppo moderate, quando osserviamo Parlamenti divisi dobbiamo ricordarci che si tratta di rappresentanti degli elettori, o tuttalpiù di loro emanazioni. A decidere, in molti casi, siamo noi.