Le mani dei combustibili fossili sulle università (anche italiane)
Diverse università in almeno 8 Paesi europei hanno ricevuto sostegno economico dalle compagnie fossili. A rischio l'indipendenza accademica
Le aziende produttrici di combustibili fossili hanno versato almeno 260 milioni di euro nella ricerca, come sostegno alle tasse universitarie, in sponsorizzazioni e sovvenzioni di alcune delle principali università europee. A dirlo è un’indagine pubblicata su Investigate Europe in collaborazione con openDemocracy e realizzata con il supporto di Journalismfund Europe. Una scoperta che alimenta le preoccupazioni degli attivisti circa l’influenza dell’industria sulla ricerca accademica.
Le donazioni, a cui partecipano anche aziende del calibro di Shell, Rio Tinto, Total, Eni e Saudi Aramco, arrivano in un momento in cui molte università europee si stanno impegnando a rispettare gli accordi sulla neutralità climatica.
Quanto pesano i contributi delle fonti fossili alle università del Regno Unito
Nel Regno Unito, dove più di 100 università si sono impegnate a disinvestire dai combustibili fossili, il problema è più evidente che altrove. OpenDemocracy ha rivelato che 60 atenei inglesi hanno accettato un totale di almeno 170 milioni di euro tra il 2016 e il 2023. Shell, insieme alle sue associate, è quella che ha contribuito di più, con almeno 62 milioni di euro. A seguire, i maggiori donatori sono stati BP, la compagnia petrolifera statale malese Petronas, Total e l’azienda mineraria BHP. Total, tra l’altro, ha tenuto a precisare che i timori di “influenze” accademiche sono del tutto infondati.
L’Imperial College di Londra è l’ente che ha incassato la cifra maggiore. Shell è stata la più generosa, finanziando la ricerca su fonti di energia a basse emissioni di CO2 e sulla tecnologia di batterie alternative a quelle elettriche. Seguono le università di Cambridge (oltre 18 milioni di euro) e di Oxford (oltre 12 milioni di euro).
Quali università europee hanno ricevuto fondi dalle compagnie fossili
Investigate Europe ha raccontato che le università di otto Paesi europei hanno accettato almeno 90 milioni di euro. Dieci istituti norvegesi hanno ricevuto 68 milioni di euro provenienti dai combustibili fossili, in parte dalla statale Equinor. Poi ci sono, tra le altre, il Politecnico di Zurigo e la storica Università Complutense di Madrid, una delle più antiche istituzioni accademiche del mondo, che ha ricevuto circa mezzo milione di euro dal gigante dell’energia Repsol e dalle sue entità associate.
E poi c’è l’Italia dove, secondo i dati raccolti da openDemocracy, dal 2016 gli istituti accademici hanno ricevuto 5 milioni di euro, in gran parte destinati a sostenere i dottorandi. La cifra è probabilmente molto più alta, visto che la metà delle 67 università pubbliche contattate non ha risposto.
Così Eni finanzia le università italiane
Naturalmente dietro questi finanziamenti c’è anche Eni. Da un lato ci sono le donazioni all’estero, con almeno 2,1 milioni di euro per il Centro per la reputazione aziendale dell’Università di Oxford, che ha incluso un caso studio su come l’Eni «ha costruito la legittimità attraverso i suoi programmi di sostenibilità nella Repubblica del Congo e altrove».
Oltre a questo, la compagnia del Cane a sei zampe ha versato almeno 10 milioni di euro alle università italiane solo lo scorso anno. In particolare, ha sovvenzionato con 1,3 milioni di euro l’Università di Milano-Bicocca per un progetto di ricerca quinquennale che copre temi quali l’energia geotermica e la cattura e lo stoccaggio dell’anidride carbonica (CCS). I giornalisti che hanno condotto l’inchiesta hanno ascoltato Marco Grasso, ricercatore dell’università che si è dimesso in segno di protesta.
Un’altra università italiana coinvolta è la Federico II di Napoli che, prima di rispondere alle richieste di openDemocracy, si è consultata con Eni per capire quali informazioni rilasciare. Il colosso petrolifero ha comunicato di aver «espressamente negato» il permesso di divulgare i dati. L’università si è quindi offerta di fornire gli importi dei finanziamenti per ogni progetto, senza però dare informazioni specifiche. L’Eni ha rifiutato anche questo, dicendo che sarebbe comunque rientrato «nell’ambito dei segreti commerciali» e avrebbe causato «danni concreti» ai suoi interessi commerciali. Alla fine, non è stato rilasciato alcun dato.
Fondi usati anche per lo sviluppo di tecnologie come la cattura e stoccaggio di CO2
Molte delle attività finanziate dalle società di combustibili fossili riguardano lo sviluppo tecnologico, tra cui compare la controversa tecnica della cattura e lo stoccaggio della CO2 (CCS). Diversi esperti ritengono che la soluzione del CCS, in cui l’anidride carbonica viene immagazzinata nel sottosuolo, sia l’unica praticabile per settori difficili da decarbonizzare, come le infrastrutture, i prodotti chimici e il cemento. Ma sebbene molte economie stiano investendo su questa tecnica (in primis quelle petrolifere, tra cui i paesi dell’Opec), non c’è ancora alcun risultato tangibile circa la sua efficacia.
«Le aziende produttrici di combustibili fossili sono la causa numero uno del collasso climatico», ha dichiarato Alice Harrison, responsabile della campagna sui combustibili fossili di Global Witness. «Donando alle università, nel migliore dei casi cercano di rendere più ecologica la loro immagine associandosi a istituzioni rispettabili. Nel peggiore dei casi, stanno cercando di distorcere la ricerca e l’apprendimento in modi che contribuiranno a inserire i combustibili fossili nel nostro futuro energetico».
Intanto, Eni ha dichiarato che il suo finanziamento fornisce risorse vitali per lo sviluppo di nuove tecnologie e sistemi di energia rinnovabile e che «continuerà a investire» nelle università. Un portavoce dell’azienda ha aggiunto: «Eni non vede alcun conflitto tra la creazione di partnership e gli investimenti nella ricerca tecnologica a sostegno della transizione e il continuare a garantire la fornitura di energia tradizionale».
Le università invitate ad assumersi le loro responsabilità
Certo, c’è considerare che i continui tagli all’istruzione abbiano spinto gli istituti accademici a cercare nuovi modi per finanziarsi. Non stupisce se poi molte di queste abbiano abbandonato un approccio etico per buttarsi tra le braccia dei colossi dei combustibili fossili. Guardandola da questo punto di vista, dunque, potrebbe sembrare una strada obbligata o quasi.
Ma, come ricorda Stuart Parkinson, direttore esecutivo dell’associazione britannica Scientists for Global Responsibility, «le donazioni comportano un rischio di reputazione per le istituzioni accademiche». A suo parere, le università dovrebbero assumere una posizione più forte sulla provenienza dei loro fondi.