La Commissione europea vuole tenere in vita l’ideologia del rigore
La riforma ipotizzata del Patto di stabilità salverebbe le politiche rigoriste, introducendo novità poco utili, se non dannose
La Commissione europea, dopo lunghe discussioni, ha pubblicato la sua ipotesi di modifica del Patto di stabilità, che ad una prima lettura appare molto inutile, se non assai dannosa. Prevede infatti il mantenimento in vita dei surreali parametri del 3% del rapporto tra deficit e Pil e del 60% tra debito e Pil. Obiettivi ormai chiaramente inapplicabili, come dimostra la deroga protratta dal 2020.
L’organismo esecutivo di Bruxelles si limita a correggerli con un indicatore tutt’altro che banale. Si tratta della spesa primaria – in sintesi, la spesa pubblica al netto degli interessi, dell’impatto degli stabilizzatori sociali e di misure una tantum – che dovrà essere concordata bilateralmente con la Commissione ogni 4 anni. Una volta stabilita tale spesa però lo Stato interessato non dovrà modificarla neppure in caso di recessione molto pesante. E persino in situazioni di emergenza.
In estrema sintesi, si lasciano in vita le architravi ideologiche dell’Europa del rigore, pensate trent’anni fa, e si mitigano con la prospettiva di trattative fra Commissione e singoli Stati che hanno tutto il carattere della deroghe concesse, caso per caso, in base ad una non ben chiara “affidabilità” quasi interamente finanziaria. È inutile dire che un’ipotesi del genere non è affatto favorevole all’Italia, che risulta il Paese in cui la crescita della spesa primaria è stata, in termini percentuali, la più alta nel 2022, dopo quella lituana.
Si prospettano quindi tempi davvero duri. La legge di Bilancio italiana per il 2023 varrà poco più di 30 miliardi di euro. Di cui 20 sono “fittizi” perché rappresentano il portato della deroga europea concessa all’Italia di avere un deficit del 4,5% invece che del 3,3%. Con le nuove “regole” dal 2024 una simile possibilità non sarebbe più applicabile. O certamente risulterebbe molto più onerosa, come del resto già emerge dalla difficile situazione attuale che ha indotto il governo Meloni ad utilizzare come parola chiave quella della “prudenza”.
I 20 miliardi di maggior deficit vanno trovati infatti con nuovo debito da collocare sui mercati. Ma è già certo che non basteranno, tanto è vero che le nuove emissioni di debito pubblico previste dal Tesoro nel 2023 sono stimate intorno ai 90 miliardi di euro. Che, naturalmente, debbono aggiungersi agli oltre 250 miliardi di titoli in scadenza.
Il problema, allora, è chi comprerà tale debito? La Bce ha già fatto sapere che non parteciperà all’acquisto di nuove emissioni di debito ed ha alzato i tassi rendendo il collocamento dello stesso più caro. Partirà così la concorrenza sui titoli del debito pubblico e l’Italia dovrà sperare che i tassi di interesse dei titoli tedeschi non siano troppo allettanti perché renderebbero il collocamento dei nostri costosissimo e, difficilmente, sostenibile, con la ricomparsa dello spread nei titoli dei giornali.
Tale timore è alimentato da due ulteriori fattori. In primo luogo, le scommesse sul nostro debito, i famigerati Cds, stanno già salendo di prezzo. Proprio perché ci si attende un indebolimento e un deprezzamento dei titoli italiani. Il secondo fattore è costituito dall’impennata dei tassi americani che sta attraendo capitali da tutto il mondo e che certo non aiuta la vendita dei titoli italici, destinati ad appellarsi al risparmio nazionale in misura maggiore rispetto al passato.
L’Europa sembra così avvicinarsi sempre più ad una crisi irreversibile perché continua, pervicacemente, anche con l’ipotesi di riforma del Patto di stabilità, a fare il contrario di quello che servirebbe. Piuttosto che inutili regole sulla spesa e sul debito, avrebbe bisogno di smontare il dumping fiscale interno, di avere una “politica” monetaria in grado di reggere il debito e la spesa, di capire rapidamente che i suoi interessi sono ben diversi da quelli degli Stati Uniti e dunque di mettere subito alcuni limiti al grande casinò della finanza derivata, responsabile dell’inflazione.
Il rapporto deficit/Pil non ha alcun senso negli Stati Uniti, dove lo ignorano allegramente. Mentre nel Vecchio Continente continua ad essere un totem intoccabile. Intanto però non esiste ancora un regolamento sulle criptovalute – dovrebbe entrare in vigore nel 2024 – per cui chiunque, di fatto, può acquistarle. Ma rischiando tutto. Perché non esiste alcun fondo di garanzia né tantomeno è previsto l’intervento della Banca centrale. E, soprattutto, non esiste alcuna separazione fra il capitale degli investitori nelle piattaforme e quello del suo “gestore”, per cui possono avvenire casi come quello dell’americana Ftx.
In estrema sintesi, senza troppi tecnicismi, l’Europa si rende così un cerbero, inutile e dannoso. Nei confronti dell’economia reale e consente la proliferazione di colossale “sale giochi” della finanza derivata e di molte criptovalute. Peraltro, permettendo che questo armamentario finanziario di distruzione di massa venga pubblicizzato e venduto ovunque.