«La COP25 è fallita. Non scoraggiamoci e puntiamo su carbon tax»

Tavoni (direttore EIEE-CMCC): lo strumento delle COP ha dei limiti ma non demonizziamolo. Utile lavorare su accordi bilaterali e carbon tax. Dazi climatici? Idea sensata

Emanuele Isonio
I negoziati alla Cop 25 di Madrid © UN Climate change/Flickr
Emanuele Isonio
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«Per come è costruito lo strumento delle COP e con questo attuale sistema politico, era irrealistico pensare a passi avanti enormi dalla conferenza di Madrid». Fa professione di realismo Massimo Tavoni, docente di economia del clima al Politecnico di Milano e direttore dello European Institute for Economics & the Environment del CMCC (Centro Euro-Mediterraneo sui cambiamenti climatici). Nessuno scoraggiamento. Solo la consapevolezza che tutte le speranze per la riduzione delle emissioni climalteranti globali non possono essere lasciate a trattative tra tutti gli Stati mondiali.

Professor Tavoni, si aspettava conclusioni così negative dalla conferenza di Madrid ?

Diciamo che è difficile trovare qualcuno che si aspettasse passi avanti significativi. Si stavano per raggiungere risultati positivi sull’articolo 6, quello che avrebbe dovuto indicare le regole che governeranno il nuovo meccanismo per lo scambio delle quote di emissioni di CO2. La versione finale, girata nell’ultima fase della conferenza, sembrava aver raccolto il necessario consenso politico ma poi è tutto sfumato. Probabilmente l’essersi concentrati soprattutto su quel punto è stata una scelta sbagliata. Ad ogni modo, anche ottenendo risultati sull’articolo 6, le novità non sarebbero state epocali.

In pratica, dopo tanti anni di trattative, siamo quasi all’anno zero e le emissioni continuano ad aumentare. Non è il caso di ripensare lo strumento delle Cop?

Non sarei così estremo. Lo strumento delle Conferenze delle Parti per sua natura è luogo di negoziazioni ampie e complesse. Però ha il vantaggio di essere inclusivo di tutti i Paesi del mondo. I suoi limiti si sono visti a Madrid ma sono gli stessi che si vedono anche in conferenze non dedicate ai cambiamenti climatici. Non getterei alle ortiche l’Accordo di Parigi perché stiamo andando lenti. È una cosa naturale. In ogni caso i passi in avanti ottenuti in quell’ambito non potranno mai essere clamorosi. Finora ci sono stati ma sono stati parziali.

Ad ogni modo, non gettiamo la croce sullo strumento. Il problema è la volontà politica globale. E l’attuale quadro politico internazionale non soffia certo a favore di scelte coraggiose: gli Stati Uniti di Trump, il Brasile di Bolsonaro, e con loro l’Australia e alla fine anche la Cina, hanno inciso sull’esito finale. Purtroppo è innegabile che si diventa ostaggio delle nazioni più recalcitranti.

Ma il Pianeta può attendere i tempi della diplomazia? Abbiamo ancora tempo da perdere?

Attenzione a entrare nella logica del “siamo fuori tempo massimo”. Non c’è “sì o no”. Ogni tonnellata di CO2 immessa in atmosfera, vi rimane per qualche centinaio di anni. Ergo: ogni azione positiva che si riesce ad avviare, ogni risultato positivo che si riesce a portare a casa, è un risultato. Poi, chiaramente, è necessario fare più in fretta possibile.

Quindi, in attesa di accordi globali, che si fa?

Personalmente, credo sia essenziale spingere per accordi bilaterali tra i Paesi virtuosi.

L’Unione europa, nel consesso di Madrid, sembra essere l’unica grande entità globale intenzionata a spingere sull’acceleratore. Crede che questo fallimento possa ridurre anche le sue ambizioni ecologiche?

Non penso. L’Europa si sta dimostrando molto determinata ad andare avanti. Questo perché sempre più elettori, soprattutto nei Paesi del Nord Europa, lo chiedono con voce forte. Lo stesso Green New Deal presentato nei giorni scorsi dalla neopresidente della Commissione europea, von der Leyen, al netto dei veti e delle perplessità che solleverà in seno ad alcuni Stati nazionali e in alcune lobby, ha un’ambizione storica.

Quali sono le soluzioni alternative possibili secondo lei per raggiungere risultati concreti in favore dell’ambiente?

Dipende da chi risponde a questa domanda. Gli economisti sostengono che, considerando costi e risultati attesi, una carbon tax sia di gran lunga la via migliore. È una soluzione che fissa il principio che “chi inquina di più, paga di più” senza far differenza tra settori industriali e tecnologici. Come tutti gli strumenti ha un rovescio della medaglia.

E sarebbe?

Non può essere usata in modo omogeneo perché può creare facilmente tensioni sociali e aumentare le disuguaglianze. Sia tra i diversi Stati sia all’interno dei singoli Stati: aumentare le tasse sulla CO2 equivale a spingere in alto il prezzo dell’energia e questo va a colpire soprattutto i ceti più poveri.

Si potrebbero sempre trovare contromisure…

Certamente: con i proventi delle tasse si potrebbero mettere in piedi strumenti di compensazione per aiutare le fasce più svantaggiate. E nel medio termine, la carbon tax porta a una transizione delle fonti energetiche da quelle sporche a quelle più pulite. Ma è nel breve termine che lo strumento può creare le tensioni maggiori. Vediamo ad esempio cosa è successo con la storia dei gilet gialli in Francia, che protestavano per l’aumento del prezzo dei carburanti. Le persone ragionano sul breve termine e, con loro, anche i decisori politici, che si preoccupano di non perdere consenso alle successive elezioni.

A proposito di misure efficaci, secondo lei potrebbe essere utile introdurre dei “dazi climatici” da applicare ai prodotti importati da Paesi che, disinteressandosi della riduzione delle emissioni climalteranti, attuano di fatto un dumping verso i Paesi più virtuosi?

Certamente può essere una proposta da approfondire. Se Trump ha avuto un merito, è di avere sdoganato l’idea che i dazi possono esistere. Sono ormai accettati nel dibattito pubblico e quindi potrebbero essere applicati in funzione ambientale. Tra l’altro, un articolo specifico del WTO prevede la possibilità di applicarsi per motivi ecologici. Quindi la percorribilità legale è indubbia.

Più che altro la vera difficoltà è nell’applicazione pratica. Nella possibilità di conteggiare correttamente le emissioni dei prodotti, soprattutto se provengono da Stati come la Cina o l’India. E poi, per l’applicazione, servirebbe un accordo tra una coalizione minima di Stati “virtuosi” per creare una certa massa critica, altrimenti non si ottiene il risultato sperato, che è quello di avere un efficace strumento coercitivo verso gli Stati che inquinano di più.

Qualcosa di simile, comunque, è previsto dal nuovo Green Deal europeo?

Assolutamente sì. C’è un passaggio definito “border carbon adjustment” che va esattamente in quella direzione. Ovviamente bisognerà vedere come reagiranno gli Stati quando si tratterà di discutere nel dettaglio quelle norme. Peraltro, su quel tema l’Italia potrà giocare un ruolo due volte importante: il governo nazionale potrà schierarsi tra gli Stati più avanzati, se vorrà tenere fede alle promesse fatte dalla maggioranza parlamentare. E il dossier rientra tra le competenze del commissario agli Affari economici, l’italiano Paolo Gentiloni.