Edelman, l’agenzia della Shell, dietro la comunicazione della Cop30
L’Onu affida a Edelman, agenzia che collabora con Shell, la comunicazione della Cop30. Una scelta che apre polemiche su conflitti di interesse
Accade quando si predilige la forma alla sostanza. Che qualcosa sia andato storto alla Cop30 ormai è chiaro a chiunque. Ma anche nell’anno della Conferenza delle parti sul clima più instagrammabile della storia (e, a detta di molti, la meno inclusiva) scoprire che l’agenzia di pubbliche relazioni che seguirà l’evento è la stessa che vanta tra i clienti un colosso del petrolio come Shell non può che aggiungere vernice grigia a un quadro che continua a tingersi di fosco.
La notizia era apparsa sui siti specializzati il 23 luglio, ed è finita al centro di un’inchiesta di Matteo Civillini del magazine Climate home news qualche giorno dopo. Il documento è stato firmato dallo United Nations Development Program, come confermato a Valori dalla presidenza della Cop brasiliana. Vediamo.
Cop30: più immagine social che sostanza
Già da tempo la Cop30 sembrava votata ai social più che alla sostanza. La scelta di Belém, città palesemente inadeguata a ospitare una manifestazione di questa portata, era stata essenzialmente mediatica, e aveva suscitato perplessità negli addetti ai lavori già l’anno scorso a Baku, quando gli habitué della conferenza, avvezzi a prenotare con largo anticipo, scoprirono con preoccupazione che i posti letto disponibili erano pochi (circa 18mila).
Non solo. Una certa quantità era già stata requisita dal governo con accordi stipulati con le grandi catene alberghiere. Più in generale, il territorio era assolutamente inadeguato ad accogliere la massa di persone – in media tra le 65 e le 70mila, recentemente – che avrebbe partecipato in presenza. Le poche stanze rimaste, peraltro, venivano già proposte a prezzi esorbitanti, come succede quasi sempre da Glasgow in avanti. Tariffe che possono raggiungere i 5mila euro a notte. Senza contare i privati, che con due settimane possono guadagnare cifre che avvicinano quelle necessarie a comprare un intero appartamento.
Il risultato? Le delegazioni delle piccole isole (le più colpite dai cambiamenti climatici) fanno fatica a permettersi anche solo di pensare al viaggio. Per non parlare dei Paesi poveri del mondo, impossibilitati a sostenere le spese per i propri negoziatori. Tutti costoro rischiano di restare a casa. Ma anche gli occidentali sono in difficoltà. Al ministero dell’Ambiente italiano stanno facendo più di una pensata su chi (e per quanti giorni) inviare in Sudamerica, dato il budget esorbitante richiesto per organizzare la spedizione. Per non parlare dei rappresentanti delle organizzazioni non governative, del mondo dell’advocacy e, ovviamente, dei giornalisti. Serpeggia l’idea di un boicottaggio che creerebbe un precedente storico.

La Cop trasformata in spettacolo mediatico
Se disastro sarà, insomma, sarà un disastro annunciato. Ma il governo di Lula, che tante speranze aveva suscitato riducendo la deforestazione (e altrettante ne ha deluse aprendo, tra le altre cose, a nuove concessioni per la ricerca di petrolio), si è affrettato a dichiarare che «non esiste un piano B». Si va avanti, anche perché i lavori – come visto insufficienti – per portare Belém a una condizione accettabile sono costati quasi un miliardo di dollari. Con un investimento di capitale politico non da poco sul fronte interno.
Certo, qualche problema c’è, è stato ammesso. La carenza di posti letto che ha costretto ad anticipare il summit dei leader di due settimane rispetto al resto della conferenza è stato definito un «fallimento del mercato» dal presidente della Cop André Correa do Lago. Non serviva un grande economista à la Stiglitz, però, per prevederlo. E questo lascia qualche dubbio sulle competenze dell’amministrazione Lula. O sulla buona fede.
La Cop tra burocrazia e labirinti organizzativi
Per cercare di ricostruire la vicenda, e sulla scorta del lavoro di Climate home news, Valori ho contattato il segretariato della Convenzione quadro per i cambiamenti climatici (Unfccc) in cerca di spiegazioni. L’ufficio stampa ci ha rimandati alla presidenza della Cop brasiliana, «che ha assunto l’agenzia di Pr». Non è esattamente così. Quest’ultima ha fatto sapere a questo giornale tramite una dichiarazione ufficiale che «la selezione di un partner di comunicazione per la Cop30 è stata condotta dallo United Nations Develpoment Programme (Undp), partner della presidenza della Cop30, con un processo di gara rigoroso e trasparente che rispetta le regole Onu. Questo processo ha aderito ai più alti standard in termini di compliance e regole di procurement, assicurando trasparenza e competitività».
«Edelman – prosegue la risposta fornita a Valori – è stata selezionata sulla base della forza della sua proposta tecnica e finanziaria. Che è stata quella che meglio ha rispecchiato i criteri stabiliti. La presidenza rimane focalizzata sul portare a termine una Cop30 ambiziosa e inclusiva in linea con gli obiettivi climatici globali e l’urgenza con cui ci troviamo a confrontarci».
Il contratto con Edelman: clausole e ambiguità
Ma cosa dice il contratto? Proviamo a leggerlo.
«La trentesima Conferenza delle parti dell’Accordo quadro delle Nazioni Unite sul clima (la Cop30) si terrà in Brasile nel mese di novembre 2025, riunendo leader globali, decisori, scienziati, società civile, rappresentanti del settore privato e imprese per discutere soluzioni alla crisi climatica», si legge nel testo firmato tra l’agenzia internazionale di pubbliche relazioni Edelman e lo United nations development program (UNDP), riportato dal sito Climate home news. «La Cop 30 – prosegue il testo – arriva a vent’anni dall’entrata in vigore del Protocollo di Kyoto e a dieci dall’adozione dell’Accordo di Parigi, e porrà il Paese come un attore centrale nelle discussioni globali sul clima».
Quindi, data la necessità di giustificare il proprio ruolo, si prosegue parlando dei limiti delle competenze organizzative brasiliane. «La preparazione di una Cop comporta attività di coordinamento a vari livelli e articolazione con migliaia di stakeholder, a livello nazionale e internazionale, rappresentando una sfida significativa per l’allineamento narrativo e la comunicazione. Il team del governo federale, che lavora alla preparazione della Cop30, dispone già di professionisti di alta qualità con esperienza nel campo della comunicazione, rivolta in particolare al pubblico nazionale, ma con esperienza limitata riguardo alle Cop o all’agenda internazionale sul clima. L’organizzazione della Cop richiede un supporto di comunicazione strategica altamente complesso che richiede soggetti specializzati per diversi mesi prima dell’evento stesso».
Conflitti di interesse nella scelta di Edelman
L’iniziativa di concentrarsi sulla comunicazione in sé è senz’altro apprezzabile. In ambiente universitario andrebbe sotto il nome di “disseminazione”. Ovvero quel complesso di attività, cioè, che portanto un ente a interagire al di fuori della cerchia ristretta degli addetti ai lavori. Serve, e ormai è acclarato, agli atenei per non restare delle monadi. Ed è fondamentale anche per le conferenze del clima, che sono riuscite a catalizzare supporto dalla popolazione (e quindi a esercitare pressione sui politici) proprio quando sono diventate più mediatiche.
Si può anche comprendere il ricorso ad agenzie internazionali dotate di grande esperienza e canali di comunicazione. La domanda è: è davvero necessario e inevitabile assumere un’agenzia coinvolta con la lobby delle fonti fossili? Valori lo ha chiesto al segretariato dell’Unfccc, la convenzione quadro delle Nazioni unite sotto al cui ombrello sono organizzate le Cop. A questa domanda non è stata fornita risposta.
Edelman e la comunicazione delle fossili: un rapporto ingombrante
Come ricostruito da Climate Home News, che ha pubblicato il documento, il contratto da 835mila dollari è stato firmato tra Edelman e lo United nations development programme. Inoltre, secondo la testata, «la stessa dirigente che si occupa del lavoro della Shell in Brasile – dove la compagnia sta aumentando l’estrazione di petrolio e gas – lavorerà anche sul contratto della Cop30». Anche qui la domanda è chiara: come è possibile immaginare che non ci siano conseguenze?
«Un tema da considerare è il fatto che, purtroppo, non è una novità assoluta – dice Matteo Civillini al telefono –. Agenzie di pubbliche relazioni come Edelman e altre lavorano con le presidenze della Cop quasi tutti gli anni. Edelman stessa ha avuto un ruolo centrale anche alla Cop28 di Dubai. Si è rotto da anni un tabù, quello che questa cosa possa essere vista in modo controverso. Sbagliando. Anche perché dopo la pubblicazione di questo articolo abbiamo registrato una forte reazione da parte della società civile che ci conferma che questo non è accettabile. Farsi queste domande è lecito, perché la decisione di affidare l’incarico a Edelman viene dalle Nazioni Unite. Quindi, se da una parte il segretario generale António Guterres punta il dito contro chi lavora con le aziende dei combustibili fossili, dall’altra la stessa organizzazione affida loro un incarico importante». Il riferimento è al discorso di Guterres del 2024 contro le agenzie pubblicitarie e le società di pr che lavorano nel settore. Definite dal portoghese «madmen fuelling the madness».
L’opinione di un’altra società di consulenza
È possibile lavorare con le ricchissime multinazionali delle fonti fossili? Lo abbiamo chiesto a un’altra società di consulenza, molto più piccola di Edelman, ma che opera in diversi Paesi (Australia, Nuova Zelanda, Stati Uniti) ed è in possesso di una certificazione BCorp. «Bwd strategic è una società di consulenza strategica sulla sostenibilità». dice a Valori l’amministratore delegato Luke Heilbuth. La società offre anche servizi di comunicazione, «piani credibili, rapportistica e prodotti narrativi visuali in grado di ottenere l’approvazione di investitori, soggetti regolatori e clienti», prosegue il manager. Un soggetto, quindi, attivo nel settore.
L’opinione di un’azienda del comparto può essere utile a capire meglio che cosa accade nella testa dei dirigenti. Chiediamo: una società di comunicazione dovrebbe rinunciare a una tipologia di clienti per acquisirne un’altra? «Sì – risponde Heilbuth –, a volte è l’unica scelta razionale. Se il portfolio dei clienti che hai contraddice i valori che dichiari o la strategia che porti avanti, perdi credibilità con clienti, dipendenti, regolatori e mercato dei capitali. Nel mondo della sostenibilità, l’integrità conta quanto gli altri asset: o ne tieni conto, o la ignori. Noi non lavoreremo con aziende attive nel settore delle fonti fossili a meno che non ci sia un piano del consiglio di amministrazione verificato in maniera indipendente per avviare la transizione dalle attività ad alte emissioni». Non si tratta, dunque, di un no assoluto: a determinate condizioni la collaborazione è possibile. Bisogna, però, impegnarsi a cambiare, sostiene Heilbuth.
Comunicazione climatica o greenwashing?
Di solito la difesa delle grandi multinazionali della consulenza e delle pubbliche relazioni quando accettano incarichi contrastanti è che le questioni sono gestite da divisioni differenti. Il problema, però, secondo il manager australiano, è che «le muraglie cinesi raramente restano in piedi quando si presentano degli incentivi [a buttarle giù, ndr]. Le questioni legate al brand, alla leadership e alle compensazioni riguardano l’impresa nel suo complesso. Se un’unità è pagata per aumentare l’approvvigionamento di fonti fossili mentre l’altra scrive un discorso per la Cop, il mercato legge il segnale complessivo da parte dell’azienda. Per esempio “Edelman come la principale agenzia di pubbliche relazioni per Big Oil”».
Il problema, prosegue, è che «le società più grandi hanno anche un incentivo strutturale a definire la sostenibilità come mera compliance che soddisfa i revisori e gli assicuratori con cui si trovano a lavorare più che una vera e propria strategia. Si tratta chiaramente di un conflitto».
Così il conflitto di interessi indebolisce linguaggio e trasparenza
In che modo potrebbe manifestarsi? Facciamo qualche esempio. «Immaginiamo un consulente che fornisce suggerimenti al team Unfccc del Paese ospitante mentre allo stesso tempo lavora su un nuovo progetto per un’azienda di Big Oil. Il messaggio ne esce depotenziato. Il linguaggio si ammorbidisce attorno alle questioni legate al “phase out”, mentre le bozze cominciano a inclinarsi verso espressioni come “abbattuto” [unabated emissions è l’espressione usata nelle decisioni delle Cop, ndr]. Lo spazio per l’accesso delle ong silenziosamente diminuisce. Quando giornalisti e attivisti scoprono il doppio incarico – e lo fanno sempre – la legittimazione del Paese ospitante e della società di consulenza evapora. Ne soffre il morale dei dipendenti, e a quel punto tutta la questione si riduce a un processo all’ipocrisia, non a progressi sul fronte climatico».
In effetti, gli unici discorsi sulla Cop che si sentono a poche settimane dall’apertura dei lavori non sono legati al clima, ma alle preoccupazioni della logistica.
Greenwashing e conflitto di interessi: il caso Shell
Il crinale, come basta poco per capire, è scivoloso. Shell ha una strategia per la transizione e le zero emissioni nette entro il 2025, riportata in bella vista sul sito. Risale al 2021, è stata approvata dalla grande maggioranza degli azionisti, ed è stata aggiornata nel 2024. La pagina offre un esempio di come un ottimo lavoro di comunicazione può aiutare una società a rifarsi il belletto. Testi concilianti, ma non menzogneri («restiamo un’azienda petrolifera», si dice nel video, «ma…»). Un video accattivante con alcuni punti chiave messi in evidenza, numeri e immagini dosati con cura. Il lessico è blando, mai netto, prevalgono le sfumature.
Non serve un tecnico per rendersi conto che la società è ancora pesantemente coinvolta in tutte le usuali attività estrattive (anche perché qua e là lo dichiara), e che i progressi sono lenti. L’impressione complessiva, a un utente ignaro della questione, è tutto sommato positiva.
Del resto, l’azienda fa il suo mestiere. E quando scrive che «il mondo ha bisogno di una strategia bilanciata e ordinata per la transizione dalle fonti fossili» (transitioning away, lo stesso lessico per cui si gridò al miracolo nella decisione finale della Cop28 di Dubai) non ha tutti i torti. Sottolinea anche (a ragione) che le fonti fossili sono ancora importantissime per i Paesi in via di sviluppo.
Dimentica, però, di dire che gli effetti sul clima di questo modello di business sono noti alle aziende petrolifere da cinquant’anni. Come sono ormai accertati i cinici tentativi di disinformazione e negazionismo. Una politica che ha impedito di cominciare a prendere provvedimenti quando sarebbe stato più utile, e quindi al ritardo attuale. Per questo, avere una società che lavora per clienti dell’oil&gas e altri impegnati nella difesa del clima è un controsenso.
Cosa può fare l’Onu per evitare i conflitti?
Cosa fare quindi? «Adottare standard minimi di integrità per i venditori, messi in opera tramite le procedure di procurement – suggerisce Heilbuth –. A cominciare dalla dichiarazione pubblica degli incarichi recenti e passati legati alle fonti fossili, anche tenendo conto della distinzione tra espansione e transizione). In questo senso, vanno escluse le aziende che supportano attivamente l’espansione delle fonti fossili o affermazioni infondate, cui aggiungere un periodo refrattario in presenza di incarichi controversi».
Non possono mancare «audit condotti da soggetti terzi privi di conflitti di interesse e un registro in tempo reale dei contratti. E il fatto di soppesare le proposte sulla base di indipendenza e credibilità, e non solo della scala. Questo protegge il processo e le centinaia di attori in buona fede che mettono a punto soluzioni reali».
L’alternativa, conclude il manager, c’è. «Creare consorzi diversificati guidati da imprese indipendenti molto specializzate con valori in linea con quelli delle Cop ed esperienza reale. E utilizzare le Big Four [le grandi più grandi società della consulenza, e per estensione, le grandi multinazionali del settore, ndr] tatticamente e solo dove hanno più valore. Come nel settore assicurativo. Non dove gli si offre la possibilità di ottimizzare il loro business utilizzando intelligenza artificiale e stagisti. C’è moltissimo talento al di fuori dei “soliti sospetti” – boutique di consulenza strategica, esperti di climate tech, e agenzie di comunicazione che non si vendono la credibilità in nome della crescita. Il mix riduce i rischi, e di solito migliora il lavoro».
Il vuoto normativo che apre la porta alle lobby fossili
Dal punto di vista dei trattati, rincara la dose Jacopo Bencini, presidente del think tank Italian climate network, «a oggi, nessun regolamento vieta ad aziende fortemente compromesse con il settore dei combustibili fossili di prendere parte a gare e appalti pubblici sotto egida Onu. Non è scritto da nessuna parte nei testi che non possano farlo. Difficilmente, peraltro, il Brasile avrebbe potuto inserire il proverbiale bastone tra le ruote da solo. Decisioni di questo tipo necessitano infatti di un ampio consenso sia formale che politico, ad oggi tutt’altro che all’orizzonte».
Credo però – prosegue Bencini – che la vera domanda in questa vicenda sia un’altra. Come è possibile che anche grandi Paesi come il Brasile abbiano bisogno di ricorrere a contratti esterni di consulenza nella gestione, in questo caso politica e comunicativa, di un grande evento previsto e pianificato da anni? Il problema del conflitto di interessi delle grandi consultancy perderebbe di peso se i governi tornassero ad investire in risorse proprie, formando figure che possano poi rimanere a disposizione del settore pubblico».
La versione di Edelman, e il tema delle porte girevoli
Ma cosa dice Edelman al riguardo? Guardiamo il sito.
«La Cop30 offrirà alle istituzioni l’opportunità di posizionarsi in un contesto altamente qualificato, rafforzando i propri impegni in materia di clima. Sarà un momento per impegnarsi, costruire una reputazione e comunicare al pubblico le azioni incentrate sulla sostenibilità», scrive sulla propria pagina web dedicata alla conferenza. «In quest’ottica, Edelman offre un format di consulenza per la costruzione della reputazione nel contesto della conferenza. Sulla base della nostra esperienza maturata nelle precedenti Cop, evidenziamo punti chiave e strategie che le istituzioni possono adottare per posizionarsi, con spunti su quali spazi occupare, come comunicare e come relazionarsi con il pubblico».
E ancora: «Il nostro team intrattiene solidi rapporti sia con i media generalisti che con quelli specializzati. Coordiniamo incontri e interviste con le testate giornalistiche prioritarie e offriamo supporto nella preparazione di briefing, messaggi chiave e formazione dei portavoce».
«Dalla pianificazione all’esecuzione, lavoriamo a stretto contatto con i team dei clienti per identificare gli spazi migliori in cui guidare le conversazioni e trasmettere messaggi, costruendo una reputazione rilevante nel contesto della Cop30 e promuovendo un’agenda più ampia». Infine: «Il nostro team di monitoraggio specializzato fornisce report e aggiornamenti su questioni rilevanti e attuali relative agli obiettivi e ai temi della Cop30, preparando i clienti a impegnarsi su questioni rilevanti prima, durante e dopo la conferenza, oltre a stabilire KPI nei report».
Tutto torna: il filo che lega fossili e Cop
(Con Edelman collabora anche come membro del Consiglio Indipendente degli Esperti sul Clima Marina Freitas Grossi, presidente del Consiglio imprenditoriale brasiliano per lo sviluppo sostenibile, CEBDS. Ex rappresentante brasiliano alla Conferenza delle parti della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, UNFCCC. Ex consigliere governativo e membro del consiglio di amministrazione di Neoenergia, Norte Energia SA e della Global Reporting Initiative. La carica è indicata in questo articolo e pone con forza il tema delle porte girevoli).
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