Corruzione? «Ai Paesi poveri costa mille miliardi l’anno»
Del Monte, Transparency Italia: «Nella lotta alla corruzione progressi isolati. In Francia e Regno Unito troppa protezione per le corporation»
La corruzione è «una delle maggiori sfide» sulla strada della lotta alla povertà estrema nei Paesi in via di sviluppo. Così la Banca Mondiale, intervenendo sul tema nel settembre del 2017. Parole avvalorate dalle cifre: nel Pianeta, sostiene la stessa istituzione, individui e imprese pagano ogni anno 1,5 trilioni di dollari di tangenti, pari al 2% circa del prodotto interno lordo globale. A condividere l’allarme, tra gli altri, è anche Davide Del Monte, direttore esecutivo della sede italiana di Transparency International, la Ong fondata a Berlino che dal 1993 si impegna nel contrasto alla corruzione su scala mondiale.
Dottor Del Monte, c’è una correlazione negativa tra corruzione e sviluppo economico?
Sì, soprattutto se parliamo di corruzione in senso lato, ovvero di quei comportamenti dei decisori pubblici che sono dettati da interessi privati. Secondo le stime di Global Financial Integrity, nell’ultimo anno per il quale esistono dati oltre 1.000 miliardi di dollari sono usciti illecitamente dai Paesi in via di sviluppo in direzione dei paradisi fiscali. Una cifra enorme che è stata sottratta agli investimenti pubblici.
A volte si ha l’impressione che alcune multinazionali considerino le tangenti come una voce di costo quasi obbligata quando si tratta di fare business nei Paesi poveri. Ma è davvero così?
Purtroppo sì, ma questo non vuol dire che tutti debbano pagare mazzette anche perché negli ultimi anni le cose stanno cambiando. Gli Stati Uniti, dopo aver dato sostegno alla campagna Open Government Partnership con la presidenza Obama, stanno cercando di porre un freno al fenomeno. Anche l’OCSE grazie alla sua Anti-Bribery Convention va in questa direzione. È un inizio ma non basta.
Come si spiega questa scelta?
È una conseguenza, anche, della crescente presenza cinese in Africa. La Cina, con il suo approccio pragmatico è sembrata beneficiare della sostanziale deregolamentazione della lotta alla corruzione a livello internazionale. Gli USA hanno interesse a frenare l’espansione di Pechino nelle aree in via di sviluppo e per questo vorrebbero imporre nuovi standard internazionali, regole più stringenti insomma.
Cosa possono fare i governi dei Paesi in via di sviluppo?
Rafforzare i controlli ma non solo. Oggi sono ancora le corporation a portare con sé gli standard ambientali, le norme sui diritti dei lavoratori e così via. In realtà dovrebbero essere proprio i governi del posto a dettare le regole. Purtroppo però non sembra esserci un particolare interesse in questo senso da parte della classe politica locale.
Non ci sono stati progressi?
Ci sono alcune eccezioni. In base alle nostre rilevazioni Ruanda, Capo Verde e Botswana hanno conseguito grandi miglioramenti nella lotta alla corruzione. Senegal e Costa d’Avorio hanno fatto progressi sebbene non paragonabili a quelli degli altri tre Paesi. Per il momento non si registrano altri casi.
E in Occidente? Ci sono Paesi all’avanguardia nel contrasto alla corruzione?
L’Italia è un ottimo esempio per via del suo sistema giudiziario. Il nostro, per dire, è uno dei pochi Paesi europei in cui la magistratura può perseguire le corporation per ipotesi di reati commessi all’estero come evidenziano ad esempio le vicende di Eni in Nigeria. In altri Paesi, come Francia e Regno Unito, capita che i governi oppongano un principio di “interesse nazionale” per stoppare i procedimenti. Tony Blair, ad esempio, fece di tutto far chiudere il caso Bae System-Arabia Saudita. La verità è che a parità di corruzione un’azienda italiana ha molte più probabilità di essere perseguita nel suo Paese rispetto a una società francese o britannica. Questa ovviamente non è una scusante per le nostre aziende che si comportano male, ma spiega alcune disparità di trattamento a livello globale.
Cosa fanno le organizzazioni internazionali?
Servirebbe una procura internazionale anticorruzione ma siamo ancora molto indietro e per ora manca la volontà politica. Nel frattempo, se non altro, UE e G20 sostengono l’introduzione della “rendicontazione Paese per Paese”, il cosiddetto country-by-country reporting o CBCR. L’idea è quella di obbligare le corporation a rendere noti i dati sui profitti conseguiti nelle singole nazioni.
Con il CBCR diventerebbe più facile contrastare la corruzione?
È probabile. Ma in ogni caso sarebbe interessante poter avere dati certi sugli utili conseguiti e le tasse pagate dalle nostre multinazionali nei Paesi a forte emigrazione… insomma, capire quanta ricchezza stiamo estraendo. Ecco, per fare un esempio, potrebbe essere molto utile sapere quanto guadagna Eni dall’estrazione di petrolio in Nigeria e quanto paga di tasse, prima decidere le nostre politiche migratorie verso chi arriva da quel Paese.