Credit Suisse e la separazione tra banca commerciale e d’affari. Chi l’avrebbe mai detto?
L'annosa questione della separazione tra banche d'affari e retail aiuterebbe a difenderci dalle crisi. Ma la politica non ne vuole sapere
«BFI, la banca finanziaria e di investimento di Credit Suisse è all’origine dei mali che sembrano avere segnato il destino dell’istituto nato nel 1856». Non lascia spazio a dubbi il titolo di un recente articolo del quotidiano francese Les Echos su quale sia da una parte l’origine della crisi del colosso elvetico. Dall’altra il punto più delicato delle discussioni circa la sua eventuale acquisizione da parte di UBS e le garanzie che quest’ultima ha chiesto alle autorità per procedere con l’operazione.
Secondo l’analisi, per UBS era «fuori questione assorbire interamente questa divisione, dove potrebbero rimanere ancora scheletri nell’armadio». Una divisione al centro di buona parte della «inverosimile serie di scandali» che ha colpito Credit Suisse negli ultimi anni. La BFI ha «largamente contribuito alle perdite da 1,7 miliardi e 7,3 miliardi di franchi registrate dal gruppo nel 2021 e 2022». Una situazione strettamente legata alla crisi di fiducia delle ultime settimane, che ha portato moltissimi clienti a ritirare i propri risparmi. Aggravandone le difficoltà.
Una questione di fiducia
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Cosa sarebbe successo se la banca commerciale e quella di investimento fossero state separate?
In pratica, quindi, la banca di investimento si lancia in operazioni rischiose, per non dire di peggio, e registra enormi perdite. I clienti della banca commerciale non si fidano più e tolgono i propri soldi, esasperando le difficoltà. Le cose sarebbero potute andare diversamente? Se banca di investimento e banca commerciale fossero state due entità separate, non si sarebbe evitata la situazione attuale?
Ne abbiamo parlato innumerevoli volte. Dopo la crisi del 2008, la Commissione europea incaricò una commissione di esperti di studiare quali regolamentazioni fosse necessario adottare per evitare il ripetersi di un disastro paragonabile a quello scatenato con la bolla dei subprime. Nel rapporto della Commissione Liikanen, dal nome del governatore della Banca Centrale della Finlandia che la presiedeva, al primo posto tra le riforme da intraprendere figurava la separazione tra banche commerciali e di investimento.
Non è una proposta nuova: il Glass Steagall Act
Non è certo una proposta nuova o mai applicata prima. Uno dei peggiori impatti della crisi del 1929 derivò dal fatto che le banche giocavano in Borsa con i risparmi depositati dai clienti sui conti correnti. Quando scoppiò la crisi, si scoprì che tali risparmi si erano volatilizzati. Pochi anni dopo venne approvato Il Glass Steagall Act, una normativa che separava le banche commerciali da quelle di investimento. Le prime sono le banche che utilizziamo quotidianamente, e alle quali venne proibito di realizzare operazioni rischiose sui mercati. Chi voleva farlo, come le banche di investimento, non poteva aprire conti correnti.
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Tale normativa venne indebolita e poi abrogata tra gli anni ‘80 e ‘90, sulla spinta della deregolamentazione neoliberista. Dando così vita ai conglomerati too big to fail, ovvero troppo grandi per fallire senza minacciare l’intero sistema economico. Una situazione che di fatto permetteva a questi istituti di ricattare i governi in caso di crisi. Costringendo le autorità a mettere in campo enormi piani di salvataggio. Anche senza arrivare a crisi conclamate, chi apre un conto corrente si assume inconsapevolmente i rischi legati alle operazioni di investimento, ma non partecipa agli eventuali profitti.
«Una delle più feroci azioni di lobby intraprese dall’industria bancaria»
Per anni le reti della società civile hanno chiesto a gran voce che tale misura fosse reintrodotta. Una richiesta che dopo il 2008 e la peggiore crisi finanziaria della storia recente sembrava avere preso piede. Come detto gli esperti nominati dalla stessa Commissione europea l’hanno messa al primo posto tra le misure da introdurre per regolamentare la finanza.
A seguito del rapporto Liikanen partono in Europa anni di studi, discussioni, proposte, per arrivare a un clamoroso nulla di fatto. Nel 2017 la proposta viene abbandonata. Il Financial Times, che difficilmente si può accusare di essere nemico dei mercati finanziari, scrisse apertamente che «Bruxelles ha riconosciuto la sconfitta» dopo «una delle più feroci azioni di lobby intraprese dall’industria bancaria».
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A pochi anni di distanza, eccoci di nuovo qui. Tutti a stracciarsi le vesti per la crisi di Credit Suisse, le autorità per l’ennesima volta pronte a mettere delle toppe miliardarie per salvare il salvabile, dichiarazioni a raffica sul fatto che il sistema è sano e non esiste rischio di contagio.
Occorre fermare il casinò della finanza
Il sistema non è sano. È un gigantesco casinò fondato sul principio di privatizzare i profitti e socializzare le perdite. Che spinge manager e dirigenti a un vergognoso azzardo morale: se vinco mi tengo il malloppo, se perdo posso ricattare gli Stati e ripartire come se nulla fosse successo.
Sarebbe ora di smetterla, e sapremmo come fare. Chiudere questo casinò non è questione di difficoltà tecnica, ma di volontà politica. Introdurre una separazione tra banche commerciali e di investimento è una, ma non certo la sola, regola che andrebbe introdotta al più presto, anzi, che avrebbe dovuto essere introdotta anni fa. Potremmo purtroppo essere facili profeti nel dire che invece questa da questa ennesima crisi non si imparerà nulla. «Il sistema è sano», «non c’è un rischio contagio», «Credit Suisse è un caso isolato». E via per un altro giro di giostra.