La cucina italiana patrimonio Unesco: non una vittoria, ma una responsabilità
Il riconoscimento Unesco alla cucina italiana non celebra un primato, ma richiama a una responsabilità culturale, sociale e ambientale condivisa
In Italia basta attraversare un ponte o un valico – figuriamoci cambiare Regione – per scoprire che la cucina “tradizionale” non è più la stessa. Cambiano gli ingredienti, cambiano i grassi, cambiano le cotture. A volte cambiano persino i nomi degli stessi piatti, con dispute che possono durare generazioni. Se percorriamo la via Emilia da est a ovest, per esempio, incontriamo un tipo di pasta ripiena che si chiama cappelletto o tortellino, poi di nuovo cappelletto. E che però è diverso per forma, dimensione, ripieno. Stessa cosa con quella pasta lievitata fritta che alcuni chiamano crescentina, altri gnocco fritto o torta fritta. E che è più o meno la stessa cosa, senza però essere identico. Per queste ragioni parlare di “cucina italiana” come se fosse un corpo unico, compatto e immutabile è, a voler essere gentili, un esercizio ai limiti del ridicolo.
Eppure è proprio la “cucina italiana” che dal 10 dicembre è entrata nella lista del Patrimonio culturale immateriale dell’umanità dell’Unesco. Una notizia accolta con entusiasmo diffuso, ma anche con una lettura politica immediata: «Una vittoria dell’Italia», ha dichiarato Giorgia Meloni, rivendicando primati, orgoglio nazionale e identità.
Il problema è che non è questo il senso del riconoscimento. E basta leggere il testo ufficiale dell’Unesco per capirlo.
Perché l’Unesco non premia una cucina “migliore”
Nel documento che accompagna l’iscrizione non compaiono elenchi di piatti simbolo, né tantomeno richiami alla superiorità gastronomica. Compaiono invece parole chiave come convivialità, trasmissione dei saperi, anti-spreco, diversità bioculturale, cura. La cucina italiana viene descritta come una pratica sociale e culturale, fatta di gesti quotidiani, di relazioni tra generazioni, di attenzione alle materie prime e di condivisione intorno alla tavola. Un patrimonio vivente, non un monumento o una cartolina.
In altre parole: non è una certificazione di eccellenza nazionale, ma il riconoscimento di un modo di stare insieme attraverso il cibo.
La narrazione governativa, invece, sposta il fuoco altrove. Trasforma un riconoscimento pensato per le comunità in una bandiera da sventolare, un elemento di competizione simbolica tra Paesi. È una semplificazione efficace dal punto di vista comunicativo, ma culturalmente fuorviante. Perché riduce un patrimonio plurale e quotidiano a un marchio identitario e rischia di oscurare la dimensione più interessante – e più scomoda – del riconoscimento: quella della responsabilità.
Gli chef e il riconoscimento Unesco: comunità, gesti e responsabilità
Molto più aderente allo spirito Unesco è il tono usato da diversi chef nel commentare la notizia. Massimo Bottura ha parlato di cucina come rito collettivo, costruito da milioni di mani e capace di creare legami. Per Niko Romito, chef stellato abruzzese, il riconoscimento rappresenta soprattutto una responsabilità: «Ci ricorda che la nostra cucina non è solo un insieme di ricette, ma un patrimonio vivo fatto di territori, gesti, tecniche e identità. Come cuoco significa dare ancora più forza alla ricerca, alla sostenibilità, alla purezza del gusto. È un invito a custodire e allo stesso tempo a innovare con consapevolezza».
Pino Cuttaia, chef stellato sicialiano, evidenzia che «la cucina italiana non è solo un patrimonio dell’Italia: è un patrimonio che appartiene a tutto il Mediterraneo perché contiene anche i loro gesti. Gesti che sono stati tramandati attraverso le contaminazioni. La cucina italiana patrimonio Unesco vuol dire preservare e proteggere quei gesti secolari, un know how da tutelare».
Cosa riconosce davvero l’Unesco: pratiche sociali, territori, saperi
Chi ha lavorato alla candidatura – da Maddalena Fossati Dondero a Pier Luigi Petrillo – è stato altrettanto chiaro: non è stata candidata una cucina “perfetta”, ma un insieme di pratiche sociali radicate nei territori e nelle persone.
Andrea Segrè, presidente di Fondazione Casa Artusi, in un’intervista a Valori ha sottolineato che si tratta di un riconoscimento che non celebra, ma responsabilizza. «Il riconoscimento Unesco produce effetti concreti perché riconosce che la cucina italiana è un patrimonio culturale vivo, fatto di pratiche, saperi, rituali quotidiani che richiedono tutela e trasmissione. Questo può orientare politiche pubbliche, rafforzare l’educazione alimentare, sostenere la biodiversità agricola e rendere più responsabile il nostro modo di produrre, cucinare e consumare cibo». Con un accento particolare posto sui temi della sostenibilità e della lotta allo spreco. Perché la cucina italiana non nasce soprattutto dalla scarsità, dal riuso, dall’ingegno quotidiano.
Poi c’è Alberto Grandi, economista e storico dell’alimentazione, che da anni invita a diffidare delle narrazioni troppo rassicuranti. Ricorda che molte “tradizioni” italiane sono invenzioni relativamente recenti, spesso novecentesche, e che l’idea di una cucina italiana millenaria è in gran parte una costruzione retrospettiva. Il suo rischio dichiarato è che il riconoscimento Unesco venga usato per cristallizzare un mito, trasformando una pratica viva in un racconto immobile. Ed è un paradosso interessante: la voce più critica è anche quella che, forse, prende più sul serio l’idea di patrimonio immateriale come qualcosa che cambia, si contamina, evolve.
La cucina italiana patrimonio Unesco: una responsabilità, non una vittoria
Forse allora la domanda giusta non è se l’Italia abbia “vinto”, ma che cosa farà adesso di questo riconoscimento. Perché se la cucina è patrimonio dell’umanità, lo è quando combatte lo spreco, quando resta accessibile, quando racconta i territori senza appiattirli e quando continua a cambiare senza perdere il legame con le persone.
L’Unesco, insomma, non ha premiato un Paese: ha riconosciuto un modo di stare insieme. E quello, più che una vittoria, è un impegno.




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