Di Sisto: «Col CETA e i suoi “fratelli” la UE si fa male da sola»
La campagna Stop TTIP: coi trattati di libero scambio l'Europa si indebolisce e apre a Paesi che hanno meno regole e prodotti a basso costo
«Il problema delle quote per i formaggi nell’ambito del CETA è arcinoto da tempo. Avevamo avvisato il Parmigiano che il Trattato Ue-Canada avrebbe prodotto un breve balzo iniziale e poi il raggiungimento di un plateau, se non una decrescita. Ne avevamo scritto prima della firma del trattato, e l’avevo comunicato personalmente ai consorzi al salone di Slow Food dedicato al formaggio. Purtroppo hanno preferito ascoltare i propri consulenti e hanno sottovalutato la questione».
Monica Di Sisto è portavoce della Campagna Stop TTIP e da anni si occupa, da una posizione apertamente critica, degli accordi di libero scambio che l’Europa negozia con le altre grandi regioni economiche del Pianeta.I dati negativi sull’export di Parmigiano Reggiano e Grana Padano verso il Canada, con il quale è in vigore una versione preliminare del trattato CETA (Comprehensive Economic and Trade Agreement), sembrano confermare le sue previsioni negative. E fanno sospettare che la stipula dei grandi trattati commerciali non sia l’arma giusta per sostenere il commercio europeo.
Approfondimento
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C’è un problema strutturale nell’accordo?
Questi negoziati sono giocati perlopiù a svantaggio dell’agroalimentare. Perché ha una forte capacità di esportazione ma una serie di problematiche. La prima è il rischio che i prodotti vengano copiati. E ciò riguarda la maggior parte dei nostri prodotti più forti, i quali, quando entrano in un mercato locale, a confronto con altri a più basso prezzo con cui devono coesistere, beneficiano magari di un piccolo incremento iniziale. Ma non è che non fossero già presenti su questi mercati, né ci arrivano grazie all’abbattimento dei dazi: perché il prezzo al consumatore canadese rimane uguale, e a risparmiare sono invece i produttori. Ma se il formaggio da 14 euro al chilo quando arriva in Canada costa anche 30 dollari canadesi, non è che i consumatori possano acquistarlo tutti i giorni. E perciò preferiranno comunque il parmesan.
Eppure negli anni scorsi l’export in Canada era assai cresciuto…
Ma l’aumento che il Parmigiano Reggiano aveva conosciuto prima del CETA, conquistato tutto con le proprie forze, non è stato incrementato dalle quote e dall’abbattimento dei dazi. Anzi è stato depresso. Perché con il CETA si è stabilita la coesistenza tra i prodotti che echeggiano quelli italiani, e i nostri prodotti, che hanno continuato ad arrivare. D’altra parte noi esportiamo anche semilavorati, che magari finiscono nel parmesan, anche se non lo sappiamo. Ma queste esportazioni di semilavorati non sono così ingenti da compensare le perdite sui prodotti a marchio. Anche perché il semilavorato arriva anche dal Messico, dall’Argentina, che hanno capacità lattiere pazzesche e superfici enormi.
La globalizzazione così regolata non favorisce neanche i più forti, quindi…
È vero che la globalizzazione ha aperto nuove opportunità di mercato, ma in questo momento al mondo c’è un mercato per lo più povero. La media dei consumatori è una classe media povera, impoverita. E i flussi di mercato disegnati dai trattati sono potenziali, non corrispondono a ciò che effettivamente può acquistare il mercato, che è fermo. Il Wto (l’organizzazione mondiale del commercio) ha appena rilasciato i nuovi dati di flusso rivisti al ribasso (dal 2,7% all’1,2%, ndr), come era accaduto negli ultimi tre semestri. E consideriamo pure che il 60% degli scambi non sono secchi – cioè dal mio negozio esce il prodotto finito e viene esportato – ma si tratta di pezzi e funzioni per realizzare un prodotto finale. Perché le filiere si sono spezzettate in tanti paesi, il mercato si è polverizzato (come i guadagni, ndr) in decine di scambi per arrivare al prodotto finito.
Questa stagnazione riguarda anche i Paesi emergenti?
C’è un mix di fenomeni contemporanei. I cinesi, che sono stati segnati dai dazi di Trump molto duramente, e quattro o cinque anni fa hanno patito per liberarsi di una grandissima quantità di titoli tossici nelle pance delle loro banche, hanno cominciato a ri-localizzare. Quella tra Apple e Huawei è una battaglia della Cina per riaffermare la propria proprietà intellettuale, perché lo smartphone sia cinese dal motore al software alla meccanica.
La Cina sta cominciando a sfamare il più possibile i propri cittadini, ha aumentato il salario minimo per poter rendere i propri cittadini più capienti, consentendo quindi al mercato interno di avere più respiro e di essere meno dipendente dall’estero. Inoltre Pechino ha il vantaggio competitivo di aver lavorato molto bene sull’Africa, avendo lì una riserva di emergenza sia come mercato di sbocco che una fonte di materie prime.
Per parte sua Trump, negli Stati Uniti, ha condotto una sorta di cura shock, pur molto contestato, però a guardare i tassi tendenziali finali ci si accorge che c’è stato – anche stranamente – un qualche aumento dell’occupazione negli ultimi mesi. Oltre al fatto che molti Stati americani si sono impegnati sul salario minimo. E Bernie Sanders ha introdotto il tema del salario minimo nel programma dei democratici, cosa che non era mai successa. I grandi blocchi stanno ri-localizzando.
E l’Europa?
Noi europei, invece, siamo rimasti un po’ appesi. Da un lato siamo spingendo sull’acceleratore delle esportazioni, sperando che l’insieme di tutti questi trattati porti a casa “un pollo intero”. Ma in realtà stiamo indebolendo il mercato comune. Per la prima volta abbiamo in Europa un calo secco della capacità di spesa delle famiglie, in Italia molto forte, ma anche la Germania è in recessione. Abbiamo curato meno il mercato interno. I lavoratori, anche quelli tedeschi, sono più poveri. Perché in Germania hanno badato alla competizione, con l’introduzione di quei 2 milioni di minijobs, soprattutto nelle catene di produzione del settore siderurgico, con stipendi inferiori sensibilmente rispetto alla media dei lavoratori tedeschi. Noi in Italia abbiamo depresso l’occupazione e i prezzi dei prodotti all’estero.
I prodotti che andavano quasi da soli in assenza di trattato, una volta in competizione con prodotti impari ma alla pari, non vanno più. E riempire la nicchia dei ricchi non basta.
La ratifica del trattato CETA a livello europeo si farà?
Innanzitutto bisogna dire che il CETA non si può modificare come accordo in quanto tale. E se noi lo ratifichiamo entra in vigore anche la parte degli investimenti e degli arbitrati (ICS, il cosiddetto tribunale delle multinazionali). Se volessimo mettere una discriminazione positiva per proteggere i nostri prodotti tipici, come il Parmigiano Reggiano, il parmesan può quindi farci causa. Cosa che prima non poteva succedere. Approvando quella parte dell’ accordo daremmo lo strumento a tutte le imprese che hanno sede legale in Canada, comprese quelle americane, di farci causa. L’unica cosa che si può ottenere è una correzione della lista delle DOP protette, a patto che i canadesi inseriscano delle loro denominazioni di origine, che però non ne hanno più.
E allora?
E allora non resta che bocciare l’accordo e riaprire una discussione in Europa sulla struttura di questi trattati, che sono tutti in fotocopia. Perché non ci dimentichiamo che le stesse previsioni sono state inserite a proposito dello JEFTA, il trattato con il Giappone, Paese che è una specie di hub di prodotti copiati per l’Oriente, soprattutto per i formaggi. Purtroppo il commercio internazionale è così. Se tu lo deregoli, chi ha più regole e rispetta più standard viene penalizzato, gli altri vengono meno penalizzati e pagano di meno.
Crede sia possibile che l’Italia non ratifichi il CETA?
Noi chiediamo esattamente questo. Stiamo già perdendo dal trattato col Vietnam, entrato anch’esso in vigore per metà, e di cui si sono già visti i risultati sul riso. Lo JEFTA sta dando i suoi primi effetti, soprattutto per quanto riguarda la proprietà intellettuale. Sotto pressione tedesca abbiamo firmato anche il Mercosur, che ci danneggia terribilmente sul settore caseario e lattiero, sul riso, e su quel poco di zucchero che è rimasto. Perché? Cosa stiamo aspettando? Per questo siamo rimasti basiti e rispetto alle dichiarazioni della ministra Bellanova. che ha chiesto di ratificare rapidamente il Trattato CETA.
La strategia della Commissione di recuperare terreno alla competitività europea concludendo trattati, nel momento in cui la Cina e gli Stati Uniti si chiudono, ci espone a grandi rischi.
Gli altri Paesi europei come si stanno orientando?
La Germania, dove il CETA non è compreso nel patto di governo della nuova coalizione, è in attesa di ulteriori analisi. Noi lo chiediamo da anni, ma non è stata mai fatta dall’Europa una valutazione combinata degli effetti dei diversi trattati sul mercato europeo. Se un prodotto brasiliano arriva sulla piazza europea non è che i consumatori si moltiplicano, ma magari non comprano più i prodotti comunitari, a fronte di soia, burro o carne a prezzo più basso. Questo effetto che si chiama trade diversion, cioè Il cambiamento di direzione del commercio. E non l’ha mai calcolato la Commissione europea, che guarda solo entrate e uscite.
La Germania, per parte sua, da una parte si protegge e firma il Mercosur, perché ha molti pezzi lunghi delle filiere meccaniche in Brasile, per cui abbattere i dazi l’aiuta. Ma, non avendo invece grandi interessi nell’agricoltura, non se ne preoccupa granché. La Francia si è nascosta dietro il tema ambientale: ha fatto un primo passo alla camera per ratificare il CETA ma non ha concluso l’iter, perché si è trovata i contadini in piazza per 10 giorni. A ratificare è stata la Spagna, e qualche paese del Nord Europa. Ma i grandi Paesi membri non l’hanno ancora fatto. E non si capisce perché dovremmo correre noi.