Energy Charter Treaty, l’accordo che potrebbe costarci il clima

L’Energy Charter Treaty consente alle major delle fonti fossili di attaccare gli Stati che “osano” contrastare i cambiamenti climatici

La chiusura degli impianti di sfruttamento delle fonte fossili può essere foriera di ricorsi da parte delle multinazionali, in virtù dell'Energy Charter Treaty © :Joshua Hicks/iStockPhoto

Si chiama Energy Charter Treaty e sì, pochi di voi ne avranno sentito parlare. Si tratta, infatti, di un documento semi-sconosciuto, che oggi rischia di rendere gli obiettivi climatici impossibili da raggiungere. A tutto vantaggio delle grandi compagnie delle fonti fossili.

L’Energy Charter Treaty nato alla fine della guerra fredda

Facciamo allora un passo indietro di tre decenni. L’Energy Charter Treaty è un accordo internazionale sugli investimenti – firmato nel dicembre del 1994 ed entrato in vigore nell’aprile del 1998 – che stabilisce un quadro multilaterale di cooperazione transfrontaliera nel settore dell’energia. Per questo, copre numerosi aspetti delle attività legate al comparto: il commercio, i transiti, gli investimenti, l’efficienza energetica. Nacque con l’obiettivo di integrare la produzione energetica dell’Unione sovietica e dell’Europa dell’Est, alla fine della guerra fredda, nel mercato europeo (e non solo). L’Energy Charter Treaty, in altre parole, impose la globalizzazione di un settore energetico che, per decenni, era rimasto circoscritto all’area del Patto di Varsavia. Anche attraverso strumenti giuridici vincolanti, con tanto di arbitrati, sentenze e pesanti sanzioni in caso violazioni.

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Torniamo quindi ai giorni nostri. O quasi: al 2008. Direzione la costa abruzzese. Per rievocare una vicenda senz’altro più nota dell’Energy Charter Treaty: il mega-progetto Ombrina Mare. Una piattaforma petrolifera a undici chilometri dalla costa, costruita dalla compagnia petrolifera britannica Rockhopper. Sin dal suo avvio, la popolazione locale, supportata dalle associazioni ambientaliste, ha manifestato la propria contrarietà. Fino al 2015, quando, dopo anni di proteste e mobilitazioni, il governo decise di fare retromarcia, sospendendo il progetto. Il collettivo di giornalisti Investigate Europe (IE) ricorda però che «nell’ombra, la società inglese preparava già la sua rivincita. Un anno dopo, l’azienda ha depositato infatti una denuncia contro l’Italia». Con quale accusa? Violazione dell’Energy Charter Treaty.

Il caso italiano di Ombrina Mare

Il trattato, infatti, è stato ratificato dall’Italia alla fine degli anni Novanta. Esso permette alle compagnie petrolifere di chiedere risarcimenti per le perdite sugli investimenti e i potenziali profitti futuri. «Il governo dell’epoca – prosegue IE – cade dalle nuvole: tutti avevano dimenticato l’esistenza dell’accordo». Il caso italiano non è isolato. Da un decennio, l’accordo è diventato «il più utilizzato al mondo a scopo giudiziario». La segreteria dell’Energy Charter Treaty parla di 136 azioni legali avviate presso i tribunali arbitrali, situati a Washington, Stoccolma e L’Aia. E nulla si può sapere delle procedure in atto, perché esse, fino alle udienze, sono segrete.

«Un sistema giudiziario parallelo, le cui decisioni ricadono però sul denaro dei contribuenti», osserva IE. «E i risarcimenti finanziari chiesti agli Stati sono talmente elevati da rischiare di frenare l’azione dei governi per la lotta ai cambiamenti climatici», ha aggiunto Amanda van den Berghe, attivista belga dell’organizzazione non governativa Friends of the Earth.

RWE chiede ai Paesi Bassi
un risarcimento da 1,4 miliardi di euro

Dalle chiusure delle centrali a carbone allo stop alle trivellazioni alla ricerca di petrolio, tutto rischia di essere sottoposto alla “spada di Damocle” del trattato sull’energia. Esempio: nello scorso mese di febbraio il colosso tedesco RWE, proprietario di centrali a carbone in patria così come nei Paesi Bassi, ha chiesto un risarcimento gigantesco alla nazione europea: 1,4 miliardi di euro. Ciò per la decisione di bloccare, entro il 2030, la produzione di energia elettrica basata sulla fonte fossile in assoluto più dannosa per il clima.

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La miniera di carbone di Garzweiler in Germania © Bert Kaufmann/Wikimedia Commons

Al fine di valutare il rischio che il trattato fa realmente pesare sugli Stati europeo, Investigate Europe ha realizzato una stima inedita, «a partire dagli investimenti attuali nelle energie fossili (centrali a carbone e a gas, terminal petroliferi, oleodotti, gasdotti e giacimenti di idrocarburi). Il risultato è da brividi: sono in gioco 344,6 miliardi di euro».

«In gioco 344,6 miliardi di euro»

Il calcolo è basato sui dati del Global Energy Monitor e di Oil Change International. E secondo Pia Eberhardt, della Ong Corporate Europe Observatory, i rischi sono concreti: «Perché le imprese non presentano i loro ricorsi presso i tribunali nazionali? Potrebbero farlo. Ma sanno che con l’Energy Charter Treaty possono ottenere molti più soldi». Soltanto Rockhopper chiede all’Italia il rimborso di quanto speso per la costruzione della piattaforma, ovvero 23 milioni di euro. Più altri 202 milioni a titolo di indennizzo per i profitti futuri persi. Il giudizio dovrebbe arrivare a breve.

Vi domanderete: ma non si può uscire dal trattato? Certo: l’Italia l’ha fatto nel 2016. Ma c’è una “clausola-zombie”: chi lo fa, può essere comunque perseguito per 20 anni. E allora, vi direte, si potrà almeno cambiare il testo? Volendo sì. Ma occorre l’unanimità, e il Giappone ha già detto che non se ne parla. Inoltre, la Commissione europea ha affermato che sì, lo si può rivedere, ma a patto di proteggere gli investimenti esistenti in carbone e petrolio, nonché quelli nelle vecchie e nuove infrastrutture per il gas. Fino al 2040, ha precisato l’organismo esecutivo di Bruxelles.