Gli Stati Uniti bloccano le esportazioni di gas. Una mossa elettorale?
Il presidente Joe Biden ha bloccato una serie di progetti di esportazione di gas naturale liquefatto per verificare gli impatti climatici
Venerdì 26 gennaio l’amministrazione Biden ha lanciato un annuncio shock: il blocco (temporaneo) di una serie di permessi di esportazione dagli Stati Uniti di gas naturale liquefatto (GNL). L’obiettivo: verificarne gli impatti sui cambiamenti climatici. Destinazioni interessate, Asia ed Europa: sistemi energetici ancora legati al carbone nel primo caso, e alle esportazioni russe nel secondo. La messa in pausa dei permessi servirà al dipartimento dell’Energia per rivedere l’influsso climalterante di progetti definiti dagli attivisti “mega bombe climatiche”.
Secondo quanto riportato dal Guardian, lo stop mette in dubbio il futuro di più di una dozzina di progetti nel Golfo del Messico. Progetti che, se invece approvati, produrrebbero 3,2 miliardi di tonnellate di gas a effetto serra: la quantità complessiva oggi prodotta dall’Unione Europea.
I progetti bloccati da Biden mettono i Repubblicani sul piede di guerra
Il blocco, in ogni caso, non è permanente né assoluto. Dalla Casa Bianca hanno già rassicurato che potrà subire deroghe in caso di «emergenze di sicurezza nazionale impreviste e immediate». Uno dei terminal la cui approvazione è sospesa è Lake Charles LNG, un grande progetto di Energy Transfer che esporterebbe gas in diversi Paesi. L’azienda ha infatti firmato sei contratti a lungo termine. Quattro di questi riguardano Paesi asiatici, tra cui la Cina; altri due sono siglati con Shell, che rivenderebbe autonomamente il GNL. Fermo anche il permesso per l’ambizioso Calcasieu Pass 2 (CP2). Il progetto riguarda una struttura in Louisiana pensata per essere una delle più grandi del mondo, con una capacità di trasporto di 24 milioni di tonnellate di gas l’anno. Venture Global, l’impresa proponente, ha già accordi per tre contratti di fornitura a lungo termine in Europa e altri tre con altrettanti commercianti speculativi.
Il leader repubblicano al Senato Mitch McConnel ha definito il provvedimento «direttamente in contrasto con gli interessi degli Stati Uniti sulla scena mondiale». Insorgono i Repubblicani, e insieme a loro i gruppi di imprese legati all’Oil&Gas. In una lettera a Biden affermano infatti che il blocco darà potere alla Russia e causerà una ingente perdita di posti di lavoro negli USA. I dati, però, dicono il contrario. Il gas interessato dal blocco non è quello destinato all’Europa. Inoltre, proprio la crescita del settore delle esportazioni degli ultimi anni ha determinato un aumento dei prezzi del gas per gli americani. Sono problematiche anche le tempistiche di realizzazione degli impianti, che sarebbero pronti ben oltre il 2027, quando l’Unione Europea avrà visto una restrizione della domanda che, secondo l’Agenzia Internazionale dell’Energia, già nel 2026 subirà un calo dell’8%.
Gli ambientalisti soddisfatti ma preoccupati: potrebbe essere solo una mossa elettorale
La decisione di bloccare le esportazioni di gas naturale liquefatto dagli Stati Uniti arriva alla fine di un periodo di forte crescita del settore. Nato solo nel 2016, negli ultimi quattro anni ha raddoppiato la quantità di GNL destinata al resto del mondo. Il settore negli Stati Uniti è solido, con otto terminali nei quali il gas viene estratto, congelato e spedito all’estero via mare. E le prospettive sono di crescita ulteriore. L’approvazione dei progetti soggetti al blocco – che non riguarda i siti già attivi – potrebbe raddoppiare le esportazioni di gas naturale liquefatto dagli States entro il 2030.
Sono cresciute, allo stesso tempo, le proteste di gruppi giovanili, ambientalisti e attivisti, dai quali adesso arriva il plauso all’iniziativa di Biden. Si fa strada però il timore che la mossa sia volta a togliere dal dibattito verso le elezioni di novembre 2024 un argomento scomodo. Un blocco temporaneo, secondo gli attivisti, è inutile. Quello che occorre è riformare strutturalmente i criteri federali di approvazione, fermi all’ultima revisione del 1980.
La mossa appare infatti del tutto estranea alla strategia che l’amministrazione stava adottando, a partire dall’approvazione del contestato progetto “Willow Oil” in Alaska. I giovani e gli ambientalisti sono un’ampia fascia della base elettorale di Biden. Potrebbero essere l’unica speranza per il Partito Democratico, in questa fase di rimonta inarrestabile di Donald Trump. L’ex presidente, dal canto suo, ha fatto proprio lo slogan della campagna repubblicana del 2008 «Drill, baby, drill».
Nonostante tra le critiche – repubblicane e di settore – al provvedimento ci sia di allontanare la transizione ecologica, favorendo la permanenza di fonti come il carbone, gli studi dicono il contrario. Ricerche mostrano che il GNL è fonte di effetto serra per le perdite di metano legate alle operazioni di perforazione, trasporto e spedizione del processo di esportazione.
Gli attivisti per il clima chiedono a banche e assicurazioni di non sostenere il GNL
La decisione degli Stati Uniti è stata invece sostenuta da una rete di cento gruppi attivi per il clima, che hanno scritto a grandi banche e compagnie assicurative chiedendo di interrompere i finanziamenti al settore del gas naturale liquefatto.
Tra i firmatari Texas Campaign for the Environment, Sierra Club, Rainforest Action Network, Amici della Terra, Stand. Earth e BankTrack. Le organizzazioni, appellandosi a istituti statunitensi, giapponesi, canadesi ed europei, hanno chiesto loro di seguire la scia tracciata dal provvedimento dell’amministrazione Biden ala luce dei rischi finanziari e di reputazione che potrebbero colpirli se continuassero a finanziare il GNL, chiedendo lo stop immediato ai finanziamenti «per nuovi e in espansione progetti di gas metano liquefatto e le loro società madri, compresi tutti i progetti che non sono stati costruiti o hanno raggiunto una decisione finale di investimento».
Se le istituzioni finanziarie non sostenessero il settore, dicono i firmatari, sarebbe economicamente insostenibile: a partire dal 2016 sono stati stanziati 122 miliardi di dollari da parte di 60 banche apripista. Nel 2022 il settore assicurativo ha guadagnato 21,25 miliardi di dollari. Interrompere i finanziamenti, sostengono, vorrebbe dire stoppare lo sviluppo di un settore potenzialmente dannoso per il clima. I gruppi raggiunti dalla missiva hanno fino al 15 febbraio per rispondere.