L’Europa chiede una moda sostenibile. Ma cresce l’ultra-fast fashion

Dall'Europa proposte su economia circolare e moda. Ma a trionfare nel mondo è il modello della cinese Shein che raggiunge i 100 miliardi di capitale

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Il 30 marzo la Commissione europea ha presentato un pacchetto di proposte per l’economia circolare. Ovvero uno degli elementi centrali del del Green Deal. E che dovrebbe toccare ogni settore: dall’alimentazione all’immobiliare, dalla moda alla gestione dei rifiuti. Il nostro modello economico, infatti, è ad oggi per lo più “lineare”. Solo il 12% delle materie di scarto è reintrodotto nel circolo produttivo. Inoltre molti prodotti non sono durevoli o addirittura si tratta di beni monouso.

Una normativa che punta anche a colpire il greenwashing

L’Europa vuole perciò integrare nelle abitudini produttive più circolarità, promuovendo un’economia che possa mantenere il più a lungo possibile le risorse all’interno della filiera produttiva. Una proposta di regolamento sulla progettazione ecocompatibile dei prodotti sostenibili, sui diritti dei consumatori tutelandoli dal greenwashing, una revisione delle normative sui prodotti per le costruzioni. Ma anche un incremento della circolarità e della durabilità nel tessile e nella moda.

L’obiettivo è rendere i prodotti più riutilizzabili e facili da riciclare. I beni che soddisfano i nuovi standard saranno infatti dotati di un passaporto digitale che ne faciliterà la riparazione, il riciclo. Questa misura, grazie alla tracciabilità delle risorse, è tesa ad arrestare la distruzione dei beni di consumo invenduti. Diminuendone in generale l’impatto ambientale.

Ad esempio, la revisione del regolamento sui prodotti da costruzione punta a rendere più efficiente il settore edilizio a livello energetico. Ciò al fine di abbattere le emissioni di gas ad effetto serra dipese dai consumi domestici. Per farlo, però, occorre rendere più omogenee le disciplina nazionali dei Paesi membri.

La moda deve rifondarsi su riciclo e lunga durata

Per il settore tessile, invece, si cerca una visione tesa a garantire entro il 2030 che prodotti immessi nel mercato europeo siano riciclabili e di lunga durata. Per questo si invitano le imprese a diminuire il numero di collezioni per anno. Spingendo così verso un declino della moda “usa a getta”.

panni stesi © Adam Jones Flickr
© Adam Jones/Flickr

Riuscirci non è semplice. Ciò che si punta ad introdurre è un forte accento sulla progettualità ecocompatibile del tessile. E inserire regimi di “responsabilità estesa” del produttore ai fini di ridurre i rifiuti. Si esortano inoltre gli Stati membri ad adottare politiche fiscali che sostengano i settori del riutilizzo e della riparazione.

«Un indubbio passo in avanti, ma manca attenzione alla dimensione sociale»

Nel complesso, l’impianto immaginato appare in ogni caso un buon punto di partenza. Secondo Deborah Lucchetti della “Campagna Abiti Puliti” la presentazione del pacchetto sull’economia circolare «segna un indubbio e importante passo avanti verso la transizione del settore moda in ottica sostenibile».

Anche se ancora, ha aggiunto, «manca una sufficiente attenzione a tutto ciò che è la dimensione sociale e dei lavoratori. Essa appare infatti molto debole e non viene praticamente incorporata nel piano di azione proposto. Non si affrontano i temi centrali alla base della sfruttamento del settore, come le pratiche commerciali sleali e i prezzi troppo bassi imposti dai marchi committenti ai fornitori, alla base di insicurezza e salari da fame in tutto il settore. Agevolati soprattutto dai rapporti di sub-fornitura».

In questo modo, insomma, la transizione verso un modello sostenibile risulterebbe come incompleta: «Rischia di essere monca e ingiusta – conclude Lucchetti -. Senza una decisa riforma della gestione delle catene di fornitura basata sul rispetto dei diritti umani e del lavoro. Che metta al centro i diritti fondamentali abilitanti come la libertà di associazione e di contrattazione collettiva».

Il modello ultra-fast fashion della cinese Shein

Anche perché la tendenza del mercato appare in effetti quella di un superamento della fast fashion. Ma non a vantaggio di un modello sostenibile: ad emergere sembra essere, al contrario, l’estremizzazione delle storture del settore. È di rilievo in questo senso la notizia che il colosso cinese Shein – che punta proprio su quella che si può definire ultra-fast fashion – è stato valutato 100 miliardi di dollari. Più di giganti come Zara ed H&M messi insieme.

Nonostante la circolarità e il second hand ricoprano una fetta di mercato sempre più importante, i prezzi stracciati e le produzioni iper-veloci di Shein hanno ancora un’enorme fascino sui giovani consumatori occidentali. Si stima che durante la pandemia l’azienda abbia incrementato le sue vendite di oltre il 250%, producendo oltre 6mila nuovi prodotti al giorno e raggiungendo vendite per 10 miliardi di dollari.

Quello di Shein è un fast fashion iper-rapido. Basato fortemente sui feedback che ottiene dalle vendite: In base a ciò viene deciso se incrementare o tagliare la produzione di un determinato capo.

Non vi sono inoltre negozi fisici e la notorietà del marchio è passata attraverso un attento lavoro di marketing su vari social network.

La strada per una moda equa è ancora in salita

Un modello il cui impatto ambientale rischia di essere devastante. Ma controverso è anche tutto ciò che riguarda i diritti dei lavoratori. Shein ha dimostrato che la regolamentazione del lavoro subordinato all’interno delle piccole o medie imprese a cui appalta le produzioni, infatti, non sembra essere una priorità.

Donne al lavoro in una fabbrica tessile in Cina © Lindsay Maizland Wikimedia Commons
Donne al lavoro in una fabbrica tessile in Cina © Lindsay Maizland/Wikimedia-Commons

I lavoratori di queste aziende provengono spesso dalle province più povere del Paese, lavorano dalle undici alle dodici ore al giorno, con un solo giorno libero al mese, per più di 75 ore settimanali. Per evitare accuse il gruppo attribuisce la responsabilità di questa condotta ai terzi a cui affida parte del lavoro.

Ma è il modello stesso della fast fashion ad essere insostenibile. E la tendenza purtroppo è difficile da scardinare poiché i ricavi per chi produce tanto e vende beni non durevoli a basso prezzo sono ancora allettanti. La moda veloce, insomma, va ancora di moda.