Le grandi banche americane non sanno valutare i rischi climatici

Le sei banche più grandi degli Stati Uniti non sanno valutare la crisi climatica. È quanto emerge dall'esercizio voluto dalla Federal Reserve

Le banche statunitensi sono impreparate sui rischi climatici © Jessie Li/iStockphoto

Nell’autunno del 2022 la Federal Reserve, la banca centrale americana, ha annunciato la sua prima «analisi dei rischi climatici». Un esercizio su piccolissima scala, condotto solo sulle sei banche più grandi: Bank of America, Citigroup, Goldman Sachs, JPMorgan Chase, Morgan Stanley e Wells Fargo. Per verificare se e quanto potessero dimostrarsi resilienti di fronte ai futuri impatti dei cambiamenti climatici.

Impatti ipotizzati, appunto, sulla base di diversi scenari. La Federal Reserve fin dall’inizio ha chiarito che questo esperimento non aveva nulla a che fare con gli stress test e non avrebbe comportato implicazioni di nessun tipo. È stato comunque un disastro.

Come si è svolta l’analisi dei rischi climatici voluta dalla Federal Reserve

I rischi climatici si possono suddividere in due grandi famiglie, che corrispondono anche ai due moduli dell’esercizio. La prima è quella dei rischi fisici, cioè dei danni che persone, edifici, infrastrutture e altri beni materiali subiscono a causa degli eventi meteo estremi, ma anche di altri trend di lungo periodo (uno tra tutti, l’innalzamento del livello dei mari). Le banche, quindi, hanno dovuto simulare l’impatto di un forte uragano nel Nord Est degli Stati Uniti, più o meno intenso a seconda dello scenario climatico adottato.

Guardiamo lo scenario peggiore, in cui le emissioni continuano ad aumentare perché l’umanità non fa nulla per abbatterle. Ipotizzando che gli edifici non siano assicurati, le banche calcolano che ci siano conseguenze sul 20% dei propri mutui immobiliari commerciali e sul 50% di quelli residenziali. Con un aumento della probabilità di default pari rispettivamente a 40 punti base e 10 punti base. Va ancora peggio quando devono simulare un disastro naturale a loro scelta: in questo caso, la probabilità di default cresce rispettivamente del 2,6 e dell’1,1% (sempre ipotizzando che gli immobili non siano assicurati).

Il secondo gruppo verteva invece sui rischi di transizione, che consistono invece nei cambiamenti che alcuni settori dovranno affrontare per adeguarsi a nuove legislazioni e condizioni di mercato. Nell’esercizio voluto dalla Federal Reserve, sono modulati su due scenari: il primo corrisponde alle politiche attuali, il secondo al net zero entro il 2050. Nell’insieme, la transizione al net zero incrementa di circa 100 punti base le probabilità di default sui mutui immobiliari commerciali. Ma con forti differenze a seconda del settore interessato.

Le banche non sono ancora capaci di calcolare l’impatto della crisi climatica

Queste sono le conclusioni che le banche sono riuscite a trarre, senza peraltro doverle sottoporre ad alcuna supervisione esterna. Ma – ed è questa l’evidenza più significativa – per arrivare a questo risultato hanno dovuto faticare non poco. Perché non avevano dati a sufficienza. In molti casi li hanno dovuti acquisire da fornitori esterni, riferisce la stessa Federal Reserve. «I partecipanti hanno lasciato intendere come i rischi climatici siano fortemente incerti e complicati da misurare. L’insicurezza sulla tempistica e sull’entità dei rischi climatici ha reso difficile, per loro, determinare come integrarli al meglio nei loro usuali framework di gestione del rischio».

Insomma, i risultati hanno un valore relativo, perché non sono pienamente attendibili. Questo esercizio è servito soprattutto a far luce su quanto le banche siano ancora impreparate in materia di rischi climatici. E si tratta pur sempre degli istituti più grandi: quelli che hanno a disposizione più personale, più expertise, più mezzi economici e tecnici. Le banche a stelle e strisce sono in buona compagnia. Nel 2022 la Bank of England aveva condotto un test simile ed era arrivata pressoché alla stessa conclusione: «Le proiezioni delle perdite climatiche sono incerte; l’analisi degli scenari è ancora agli inizi e ci sono varie notevoli lacune nei dati».

I rischi climatici sono la realtà, non una prospettiva lontana

I rischi climatici, però, non sono una prospettiva lontana. Nel 2023, gli Stati Uniti hanno già dovuto far fronte a 28 eventi meteo estremi dal costo di almeno un miliardo di dollari ciascuno (fino al 2008 non erano mai stati più di dieci all’anno). Nella California che brucia per gli incendi, o nella Florida flagellata dagli uragani, le assicurazioni stanno già alzando i premi. O si stanno proprio rifiutando di stipulare le polizze. Le banche, dunque, hanno già nei loro portafogli migliaia di mutui per abitazioni o strutture commerciali che dall’oggi al domani potrebbero essere distrutte. Senza che ci sia nessuno a risarcire i danni.

«Questi risultati non svelano soltanto “carenze nei dati” o “problemi di modellazione” apparentemente innocui», commenta Dennis Kelleher, presidente e Ceo dell’organizzazione no profit Better Markets. «Rivelano profonde e vaste carenze nella basilare analisi e gestione dei rischi delle sei banche di Wall Street troppo grandi per fallire. E gravi carenze nella regolamentazione, nella gestione e nella preparazione per affrontare questi rischi».

Fatta eccezione per questi test preliminari privi di conseguenze pratiche, la Federal Reserve finora ha fatto poco o nulla per spronare gli istituti a migliorare. Anzi, il suo presidente Jerome Powell non perde occasione di ribadire che gli enti che si devono occupare di clima sono altri. Ora il tema è anche politico, con le elezioni presidenziali in vista. E i repubblicani che si scagliano contro qualsiasi banca o società finanziaria osi adottare politiche ambientali. La crisi climatica, nel frattempo, non sta ad aspettare elezioni, nuove policy né aggiornamenti dei database. Il rischio è che le banche facciano i conti con la realtà quando ormai sarà troppo tardi.