Quando la finanza è chiamata a rispondere del clima che cambia

Crescono le climate litigation contro banche e fondi per investimenti inquinanti. Sotto accusa greenwashing e mancate azioni sul clima

L'immagine è stata realizzata dalla redazione di Valori.it utilizzando Midjourney

La crisi climatica non è più solo una questione scientifica o politica: oggi si discute anche nelle aule di tribunale. Le cause climatiche – le cosiddette climate litigation – stanno diventando uno strumento sempre più usato per chiamare governi, imprese e attori finanziari a rispondere delle proprie responsabilità.

Questo dossier racconta come si sta evolvendo questo fronte: dalle azioni legali contro la finanza globale, alle sentenze delle corti supreme, fino alla crescita dei contenziosi climatici promossi dai Paesi del Sud globale.

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Prima è toccato gli Stati, poi alle grandi corporation, ora è la volta della finanza. Le climate litigation (cause climatiche) stanno sempre più prendendo di mira banche, asset manager e fondi pensione, chiamandoli a rispondere del loro operato.

La finanza riconosce le cause climatiche come rischio concreto

A dire che la finanza è diventato uno degli obiettivi principali delle cause climatiche è l’ultimo report “Global trends in climate change litigation: 2025 snapshot”. Lo studio è stato pubblicato a fine giugno dal Grantham Research Institute on Climate Change and the Environment della London School of Economics. Lo studio ha mostrato infatti che, a prescindere dal loro esito finale, fra gli impatti più visibili e documentati che le cause fondate sul clima comunque producono c’è quello sulle decisioni finanziarie.

Gli attori finanziari non considerano più i rischi di azione legale come un’eventualità remota, ma li inquadrano come rischi finanziari riconosciuti e rilevanti. E quindi da gestire. A esservi esposte sono in particolare le banche, sia direttamente sia attraverso i loro clienti. Inoltre, per dire del fermento in quest’ambito, tra i motori che spingono l’innovazione accademica e legale ci sono gli sforzi per dimostrare le responsabilità dal punto di vista finanziario dei grandi emettitori di gas serra per i danni causati dalla crisi climatica.

Climate litigation: BlackRock sotto accusa per greenwashing

Nel mirino delle climate litigation sono finiti alcuni pesi massimi della finanza a livello globale. È il caso di Blackrock, la più grande società di gestione di risparmio al mondo. Il report cita proprio un contenzioso che ha coinvolto il colosso guidato da Larry Fink come emblematico dei “Turning-off-the-taps cases”. I cosiddetti “casi di chiusura dei rubinetti” – 44 quelli presentati dal 2015 a oggi – mirano a interrompere il flusso di risorse finanziarie verso progetti e attività non allineati con l’azione per il clima.

A citare in giudizio BlackRock l’anno scorso è stata ClientEarth. La celebre Ong britannica ha chiesto all’authority dei mercati finanziari francese (Amf) di indagare su presunte dichiarazioni ingannevoli di BlackRock in merito a suoi prodotti commercializzati come sostenibili. In particolare, contestava i loro investimenti in società fossili. Un contenzioso che secondo il report integra anche caratteristiche dei casi classificati come “climate washing” (161 quelli presentati dal 2015) che mettono appunto sotto accusa la veridicità di affermazioni riguardanti il supposto contributo di un soggetto, pubblico o privato, alla transizione ecologica.

Cause climatiche in crescita contro banche e fondi globali

Recentissima, di fine marzo 2025, è la causa avviata nei Paesi Bassi dalla Ong Milieudefensie contro Ing Bank, fra i maggiori istituti di credito nazionali. L’accusa è di violazione del dovere di vigilanza, ai sensi del diritto civile olandese, perché Ing continuerebbe a finanziare attività legate ai combustibili fossili. Così facendo non ridurrebbe le “emissioni finanziate” (sul loro metodo di calcolo, peraltro, da tempo infuriano le polemiche). Da qui la richiesta di allineare il portafoglio a un percorso compatibile con l’Accordo di Parigi.

Ce n’è anche per un altro big dell’asset management, Vanguard. Stavolta non è stata una Ong ma la stessa autorità dei mercati finanziari australiana (Asic) ad accusarla, nel 2023, di dichiarazioni ingannevoli riguardo ai presunti filtri di esclusione Esg applicati a un suo fondo. Così nel 2024 a Vanguard Investment Australia, che ha ammesso le sue colpe, è stata comminata una multa di 20 milioni di dollari australiani.

Net zero e promesse mancate: la credibilità della finanza è in crisi

Quella contro Vanguard non è stata l’unica vittoria di Asic, che ne ha messo a segno altre contro vari gestori di superannuation (fondi pensionistici australiani). Il che dimostra l’accresciuta attenzione delle authority, un po’ ovunque nel mondo, nel passare al setaccio le dichiarazioni degli attori finanziari sul loro impegno sul fronte della sostenibilità. In Corea del Sud 35 iscritti hanno fatto causa al proprio fondo pensione per non aver adeguatamente gestito i rischi di transizione e aver, a detta loro, causato perdite.

Casi simili, riguardanti fondi pensione privati e pubblici, sono stati presentati in anni precedenti in Lussemburgo, Regno Unito, Stati Uniti e ancora Australia. Dove fece scuola nel 2020 il caso McVeigh v. Rest (Retail Employees Superannuation Trust) in cui il fondo pensione, accogliendo le richieste di un suo giovane sottoscrittore, accettò di integrare i rischi finanziari legati al clima nei propri investimenti. Riconoscendoli come «rilevanti, diretti e attuali».

Insomma, è l’intera finanza che da anni e a tutti i livelli si dichiara impegnata per la sostenibilità a essere diventata bersaglio delle cause climatiche. Che hanno in un certo senso certificato il suo crollo verticale di credibilità. Come riconosce anche uno studio del 2024 in cui i ricercatori del Mit e Banca centrale europea, riguardo alle azioni concrete sul clima, non rilevano differenze significative tra gli istituti finanziari che hanno assunto impegni net-zero e quelli che non lo hanno fatto.

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